La forma è sostanza. Film come questo sembrano stare lì apposta per ricordarcelo. Una storia normale (per il cinema, s'intende), che non a torto è stata avvicinata a quella di Taxi Driver, personaggi normali, non grandi colpi di scena. Eppure quest'opera possiede un momento artistico decisamente grande e colpisce nel segno. Ed è soprattutto nella forma, nello stile, nell'estetica che il lavoro di Lynne Ramsay si dimostra grande. Basta questo per colpire lo spettatore non distratto. È bene che il cinema sappia essere ancora una questione di inquadrature, di montaggio più o meno ellittico, di musiche particolarmente belle o stranianti. È tutta estetica, ma dimostra che le potenzialità di questa arte (come delle altre, ovviamente) sono infinite e vanno oltre il numero di storie che ci si possono inventare. Non è tanto una questione di storie. Non soltanto, per lo meno.

La violenza viene smontata, rifratta, smagata. Non c'è lusinga nella visione delle martellate o delle botte che vengono date dal barbuto protagonista. O meglio, la lusinga estetica è data proprio dalla volontà di smitizzare la violenza e metterla quasi in ridicolo. Uno stratagemma che funzionava benissimo in Drive, ad esempio. Qui si ripropone, con soluzioni differenti e anche più fantasiose, quel tentativo di narrare in modo diverso cose già viste un milione di volte. E allora le manate vengono riflesse da uno specchio rotto e insanguinato, le martellate compaiono sullo schermo attraverso le registrazioni di una telecamera di sicurezza, con musichetta scema in sottofondo. Oppure, ancor più estremo, i colpi di pistola non vengono neanche ripresi, nel loro viaggiare da una stanza all'altra. Ed è in quell'assenza il gusto fresco del film.

Non ci sono trame thrilling, mancano del tutto le indagini e gli intrighi per trovare i rispettivi nemici. Perché l'intento è quello di concentrarsi sul lato umano ed esistenziale del sicario. E quindi non mancano i flashback, i suoi momenti di fragilità, l'affetto per la madre, le goffaggini alla guida, il bisogno di medicinali per stare in piedi. Le celebrazioni funebri, la volontà sempre in limine di suicidarsi. Come nella miglior tradizione crime, da Michael Mann in poi, quell'uomo lì che uccide è anche l'uomo affezionato alla madre, che vorrebbe farla finita ma poi risponde sempre alle sue chiamate. I due lati coesistono in ogni momento, non in alternanza. Un sicario mammone è sempre un sicario, ed è sempre un mammone.

I dialoghi vanno nella medesima direzione. Inutile ribadire ciò che è scontato, molto meglio il silenzio, le immagini sgranate della città, i primi piani del faccione tumefatto di Joaquin Phoenix. E poi la musica, che qui svolge un ruolo fondamentale. I bellissimi brani di Jonny Greenwood riempiono quasi fisicamente la scena, con motivi sorprendenti e capaci di catalizzare in pochissimi secondi la tensione. E vista la necessità di “guastare” le scene violente, tutta l'intensità si gioca nelle premesse, nei preamboli, nei corridoi percorsi lentamente, nelle scale che portano all'ennesima sparatoria. E lo spettatore, spiazzato, si può rendere conto di quanto il linguaggio cinematografico gli imponga le emozioni, molto più che i fatti in sé che si susseguono sullo schermo.

7+/10

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