La ricerca di un non-recensito-a cui-dare-5 mi fa approdare a Portland, 5 anni fa.

In quel quando e dove, Matt (per gli amici M) Ward sigla quel che già nel titolo è il suo capolavoro. Non dirò della sua matrice musicale, che si innesta tra Will Oldham, Califone o soprattutto i Giant Sand di Howe Gelb (compagno di merende del nostro), nè che l'ascolto si svolge come un viaggio in carrozza da Far West al crepuscolo attraverso folk, pop, country e chissà quant'altro.

Preferisco scrivere due righe, non più, senza link esterni, nel rispetto dell'ossessivo intimismo di un disco che, del resto, fa storia a sè. Che dire, quest'uomo suona la chitarra e ci canta su, e lo fa in modo inebriante.
I suoni sono caldi e nudi, la voce è satura ogni crepa di quella stanza alta e lievemente ventilata dove "End of amnesia" andrebbe ascoltato.

La prima traccia si dipana attorno a una delle frasi di chitarra più struggenti degli ultimi secoli, iniziando il placido ascoltatore ad ancor più placide suggestioni che simmetricamente si esauriscono nel Nocturne conclusivo. Una meraviglia, davvero.
Il senso di nudità è tale che porta quasi al pudore, i suoni sono assai bassamente fedeli, la voce è decisamente complice del misfatto. Le corde sembrano spogliate anche loro, imperfette.

Un elegia della debolezza, della fragilità esistenziale, attenuata dalla solenne levità delle melodie, che tra salmi e brutti sogni lasciano scorrere l'evento in maniera apparentemente indolore. Ma M. Ward ti graffia, ti segna irrimediabilmente, te ne accorgi anche 5 anni dopo, alla fine dell'Amnesia.

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