"Last days" di Gus Van Sant

Tutte le volte che rivedo “My own private Idaho” l’impressione è così forte che per qualche giorno mi assale l’idea di essere gay – così, per migliorarmi la vita – ma la natura ahimè s’è accanita per principio e d'altronde sarei stato infelice uguale.
Nessun desiderio di crociata per carità – me ne mancherebbero i mezzi – ma il revival degli sciagurati, dei morti ammazzati, delle anime inquiete e maledette (per loro – ma chi non lo è per se stesso) non sono mai riuscito a digerirlo. Che poi al carro si attacchi Gus Van Sant – colui che ha tentato meravigliosamente di portarmi a perdizioni gay – mi fa male e pure tanto e il disgraziato in questione Kurt Cobain, vivisezionato, masticato e sputato in una pellicola irritante e instabile: un’operazione commerciale che a prescindere dai contenuti consiglio di evitare.
Nella società impazzita in cui ci sbattiamo è già un lusso lasciar stare i vivi figurarsi i morti: tutte le volte che ripenso a “Last days” l’impressione è così forte che per qualche giorno mi assale l’idea di non morire mai; tutti tesi a raccontarmi di una storia che già conosco e che non mi piace e non per questioni musicali nè per le vicissitudini della vita quanto per il senso di speculazione che ne pervade la morte.


Carico i commenti... con calma