L'arrivo
Continua...
Non sente la terra tremare, sente solo il rumore dei palazzi che si schiantano al suolo, poi le urla, poi le sirene, poi la polvere. Bandini pensa che è colpa sua e della collera di Dio, l'unica persona che non ha mai letto Nietzsche.
All'aeroporto di Pisa chiamo qualcuno. La provincia di Chieti non è stata toccata, ma L'Aquila si. Almeno cinquanta i morti. Smetto di pensare. Sul treno qualcuno dice settantacinque, un ragazzo digita dei numeri e dice: << Hai sentito di Piera? Ha la casa spaccata in due!>> Riprende a leggere Palahniuk, nella sua frangetta orribile che gli urta gli occhi e con la cravatta che gli irrita il collo. Penso ad Opi, un paese piccolissimo, dove vivono più cinghiali che persone. Opi non esiste più, se qualcosa crolla, Opi crolla per primo. Opi, un paese dove ad agosto fanno 9 gradi, dove la notte senti i lupi in lontananza, dove i cinghiali ti tagliano la strada. Immagino Opi distrutta, i suoi abitanti sotto le macerie e il resto del mondo tutto sano.
A Roma qualcuno mi dice cento, a Napoli centocinquanta. Arrivo a casa, accendo la scatola nera. L'Aquila, come la conoscevo, come l'ho vista, come è stata, non esiste più. Bombardata, cancellata. Rimango a fissare la luce che esce dalla scatola, immerso nelle immagini. Vado a letto ci penso tutta la notte. E' mattina e attacco con il telefono. La voce dall'altra parte mi dice che non gli servono altri soccorritori, che ne hanno in abbondanza e di esperti, che io sarei d'intralcio, mi dice che possono solo dispiacermi in silenzio e poi attacca.
Riaccendo la scatola ad un giorno di distanza, convinto che avrebbero parlato ancora e solo di questo. Vedo questo fidanzato di Barbie che ha preso il posto di quell'altro che tifava per l'Inter. E' a L'Aquila, con alle sue spalle un palazzo bombardato. Fa parlare persone tra loro, si discute su quello che lo stato doveva o non doveva fare, su quanto i soccorsi siano stati tempestivi e sul fatto che nemmeno l'ospedale si è salvato. Parlano, parlano, parlano. Mi ricordo di quello che mi disse un amico: << solo sotto le catastrofi si smette di essere delle merde.>> Poi ripenso al Cristo della Ricotta e dell'unico modo che aveva per esser preso in considerazione. Poteva solo schiattare su quella croce per suscitare un minimo interesse. Magari il dispiacersi in silenzio. Magari... è una necessità. Magari dovremmo tutti dispiacerci in silenzio, rimanendo informati, ma saltando questi spettacolini, questi vai e vieni di sismografi, giornalisti, politici e quant'altro. Dispiacersi in silenzio, sarebbe un buon inizio. O una buona fine.