Un uomo in rete

"Io non voglio minimizzare il calcio, ma è appunto soltanto calcio." (R. Enke)

Giovane. Forte. Vincente. Ammirato. Ma a Robert Enke tutto ciò non è più importato, quando il 10 novembre scorso s'è suicidato. Portiere tedesco dell'Hannover, già del Benfica, del Barcellona e della Nazionale tedesca, ha parcheggiato la sua auto vicino ad un passaggio a livello. Ha lasciato il suo portafoglio sul sedile accanto. Ha camminato lungo i binari per un centinaio di metri. Poi, il treno.
Cresciuto in una famiglia di sportivi, Enke ha raggiunto le vette del calcio professionistico nonostante difficoltà e drammi. Si dice che le vicissitudini presso il Barcellona nel 2003 abbiano dato il via a una depressione già latente, e a peggiorare la sua insostenibile pesantezza di vivere ha contribuito la morte della figlia, tre anni dopo, in seguito ad una malattia cardiaca. Il padre psicoterapeuta sollecito, la moglie premurosa, affetti e amicizie, nessuno ha potuto alleviare l'angoscia cupa che attanagliava il portiere. Una Angst lacerante, ma mantenuta segreta. Nel mondo dello sport non è concesso strappare il velo al tabù della depressione, tanto più se a soffrirne è una promessa nazionale del calcio. Lui stesso non è riuscito ad uscire dalla paralisi emotiva per il timore di perdere la patria potestà sulla seconda figlia adottata, e l'autostima di gran sportivo con il prevedibile risultato di ritrovarsi al centro di un gorgo metifico, composto da clamore, scandalo, derisione, isolamento. Un uomo in trappola.

Ho sempre pensato che il ruolo di portiere sia quello più stressante. Lì, da solo, a giocarsela contro tutti, ad attendere quel momento in cui i calciatori concitati s'avvicinano correndo con il pallone che schizza convulso tra i loro piedi. L'attimo in cui tutto lo stadio trattiene il respiro. La rara capacità di raccogliere sé stessi in un nanosecondo di estrema concentrazione, fotografare la situazione, decifrare le mosse dei giocatori, anticiparne le intenzioni. E reagire costretto in quello spazio circoscritto, senza via di fuga. Dunque lo scatto, la presa. Oppure il fottuto gol. Poi, andata com'è andata, scoppia il boato. Ecco: un uomo depresso non può sostenere a lungo l'eco esigente, quel roboante muggito da arena romana. Quando Robert ha deciso di gettarsi sotto il treno, nulla lo ha trattenuto, nemmeno il boato dei tifosi. Mi vien da dire... anzi.

Mentre i fan compilavano schedine, discutevano sugli attesi giochi in SudAfrica, preparavano lo striscione da sventolare allo stadio, un portiere tutto d'un pezzo, ma con l'anima di padre spezzato, ha detto basta alla vita. Basta allo strazio, alla competizione, alla costante tensione, a palloni da afferrare. Riteneva d'aver già perso, per sempre.
Disse Fromm che solo chi ha fede in sé può essere fedele agli altri. Robert "Riese" Enke, il gigante di Hannover, era un uomo in rete che aveva perso la fede. Vincere era mentire a sé stesso, e a un mondo che ormai non sentiva più suo.


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