
L'ossessione dell'ottimismo
In un mondo in cui il tempo della propria vita va barattato in cambio di denaro, il disoccupato non può che essere un escluso, un dannato a cui è capitata la sfiga di non poter leccare i piedi di qualcuno più furbo di lui in cambio di soldi, e quindi della "normalità" del quieto vivere quotidiano. Niente scandalizza di più, oggi, di una persona che abbia intere giornate libere in cui scegliere cosa fare e cosa non fare, a quale ora alzarsi la mattina, a quale ora mangiare, dormire, uscire di casa. Ci hanno insegnato questo "horror vacui" del tempo per cui averne a disposizione è una mancanza di rispetto, o una vergogna.
I progressisti arrivano con somma magnanimità a considerare i disoccupati degli handicappati sociali da aiutare con politiche mirate, vanno in giro a fare la questua di buone intenzioni con la mano sul cuore affinché si trovi qualcuno disposto a dare quattro spicci a 'sti disperati, e poi contenti così.
Pochi, invece, li considerano per quello che sono: la classe di inadatti e sofferenti che la modernizzazione ha creato dal nulla e di cui nessuno vuole sobbarcarsi l'onere. Perché la razionalità produttiva impone nuovi valori, ad esempio che si vale qualcosa solo se si è materialmente utili, quindi abbiamo fatto tabula rasa anche del più elementare diritto alla sofferenza. Chi soffre perché schiacciato dalle logiche competitive senza uscirne vincente va resettato e riadattato. La sua sofferenza è scandalosa, in questo mondo che offre così tante opportunità, non può essere presa sul serio.
Eh già. Ci vuole ottimismo e coraggio, che mai come oggi sono stati doveri così ossessivamente imposti. Chi soffre a indossare i panni del vincente ad ogni costo non ha spazio e non deve averne: siamo dentro un’enorme festa dove tutti sono belli e devono divertirsi, e guai a chi rovina l’atmosfera.
Diciamolo chiaro: per molti giovani il futuro non è una speranza, ma una minaccia. Fingere il contrario è il più grosso tentativo di fare buon viso a cattivo gioco mai visto nell storia. Ma chi ci vuole vivere in un società che usa i bisogni base degli individui (casa, famiglia) come ricatto per dettare condizioni da padrone? Forse chi si trova dalla parte di chi i ricatti li può fare, o gli illusi trionfalisti che sperano prima o poi di arrivarci. Ma per gli altri il futuro sarà l'onesto lavoro, cioè la vittima impotente, resa tale da leggi e istituzioni, allo scopo di fargli scontare tutti gli errori di chi sta sopra di lui.
Mi lamento troppo, vero? Molti dicono che proprio un lavoro "serio" mi farebbe passare certe "fantasie". Ed è così che involontariamente svelano la spaventosa etica del lavoro di oggi: quella di una pialla levigatrice, un collegio educativo per ridurre alla ragione ogni desiderio di innocente libertà e trovare finalmente gratificazione nel conforme, nell'ovvio. Una scuola che forgia uomini tutti d'un pezzo, che insegna a campare come si deve, altro che romanticherie e poesiole su quant'è bella la vita.
Scriveva un poeta, appunto, tanto tempo fa, in un'Italia lontana lontana:
«Credono che preferire la serietà al riso sia un modo virile di affrontare la vita. In realtà sono dei vampiri felici di veder divenuti vampiri anche le loro vittime innocenti. La serietà, la dignità sono orrendi doveri che si impone la piccola borghesia.»
La storia insegna effettivamente che ad essere così poco ottimisti e angosciati si finisce male: l’hanno fatto fuori.
Colpa sua, s'intende.