Giustificare Giada

A Montebelluna ci arrivi, da qualsiasi strada tu provenga, attraversando una distesa di capannoni. A sud trovi le aziende del distretto della scarpa, derelitte in mezzo ai campi di mais come balene spiaggiate; a ovest, dopo l’ospedale, con le Prealpi sullo sfondo dietro i mobilifici dismessi, hai la sensazione di stare in Ohio, pur non avendolo mai visitato; a nord c’è la bassa collina che guarda il paese, costellata dalle ville degli imprenditori e riempita, nell’aria, dai cani che abbaiano; a est è stato da poco costruito un ipermercato tutto sviluppato in altezza, di modo che dalla provinciale, facendo il cavalcavia, non possa sfuggire alla vista. Stare alla stessa quota della scritta ‘Iperlando’, magari con un tramonto estivo sugli specchietti retrovisori, dà un brivido che molti pomeriggi anonimi trascorsi in casa non riescono a regalare. La scuola in cui insegno si trova in centro, appena a nord, calata quasi come una Madonna, con la sua struttura tipicamente gesuitica e i suoi muri beige mocassino, tra le case dei ricchi. Era una scuola cattolica, negli anni Sessanta, di quelle con il pavimento di piastrelle a mosaico e l’odore, negli armadi e lungo i corridoi, di cera e di confetti. Oggi è un liceo sociale frequentato da ragazze che dovrebbero fare di Montebelluna un posto più consolante. Le alunne della mia classe fanno volontariato, studiano diligentemente, prendono appunti, si danno una mano tra loro. Quando ho spiegato il Barbarossa e Alberto da Giussano, certo, si guardavano fiere, facendosi l’occhiolino e riproducendo le espressioni gongolanti dei loro genitori che commentano i tiggì regionali. Ma qua funziona così, mi sono detto: è il sistema locale. Tra le ragazze, isolata, c’è Giada. Veste di nero, si trucca di nero, non studia mai. Ha due anni in più delle compagne, con le quali solo dopo un paio di mesi è riuscita a socializzare. Scrive dei temi meravigliosi, stracolmi di una sensibilità che deborda da ogni parola e persino dalla grafia un po’ barocca, tutta spostata verso destra, difficile da decifrare: una scrittura allenata, di certo, dalla fatica di molti fogli. Quando riconsegno i temi alla classe, glielo ripeto ogni volta: «Lo scritto va benissimo, Giada. Ma se non studi niente...», senza finire la frase, perché le ultime parole porterebbero nei burroni dove sembra che stiano immersi, come rami storti, i suoi pensieri. Così a gennaio le do 8 allo scritto e 4 all’orale, senza che nulla in lei cambi. Quando devo rimanere fuori a pranzo vado a mangiare un panino con la porchetta nell’osteria dove si raccoglie la gioventù punk. Sembra, da fuori, una trattoria come molte altre, ma quando entri senti una canzone dei Cure o dei Pennywise. Poi faccio un giro per il centro, ficcandomi sempre nel piccolo negozio di dischi accanto alla scuola. Si chiama ‘il buco’, cosa che ho sempre ritenuto molto simbolica, soprattutto osservando la gente che lo frequenta, di mattina, come se fosse un locale notturno con le luci fosforescenti in bagno. Ci trovi roba di importazione, vinili rari, etichette indipendenti. Un giorno, prima di un ricevimento pomeridiano, comprai “Missing Chairs” degli Wire, lo portai con me nell’osteria punk e chiesi di metterlo sullo stereo. Fuori dalla vetrata potevi vedere le macchine che saettavano verso i capannoni, mentre la cameriera lanciava le freccette al tirasegno come mirando alla piazza centrale. Poi andai al ricevimento fischiettando “Marooned”, e mi sentii anch’io, a mio modo, parte del sistema locale. Quello che mi sfuggiva, del sistema, era dove stesse Giada. Fin dall’inizio dell’anno capitava spesso che entrasse in classe, alla prima ora, con cinque o dieci minuti di ritardo, gli occhi più pesti rispetto alle altre mattine. Chiedeva scusa («la corriera...») e si sedeva. Un giorno d’inverno, di quelli crudi, con la nebbia che scendeva fitta sui centri abbronzanti e sui pakistani vicino alla stazione, al suo ennesimo ritardo persi la pazienza. Le dissi che non era più tollerabile, per rispetto del professore che si alzava alle sei e mezza e delle sue compagne che erano sempre in orario, e che da allora avrei preteso sempre una giustificazione firmata, altrimenti sarebbe rimasta fuori. Lei si scusò e si sedette al suo posto, senza che nulla in lei fosse cambiato. Al consiglio di classe, due settimane dopo, la professoressa di scienze sociali disse che dal centro di assistenza per minori dove Giada viveva le avevano fatto sapere che i suoi problemi di bulimia si erano di nuovo acuiti. Tutti i professori scossero la testa, in segno di afflizione. A pensare che quando Giada entrava in ritardo era perché aveva passato la notte a vomitare sulla tazza, togliendo ore al sonno, mi vennero brividi diversi da quelli che provavo ogni giorno, sulla provinciale, raggiungendo la stessa quota della scritta ‘Iperlando’, o sentendomi tra i mobilifici dismessi come in Ohio. Pensai che c’erano cose che non rientravano, in nessun modo, nel sistema locale. Pensai che la mattina dopo avrei dovuto portare io, a Giada, la giustificazione. A marzo la mia supplenza finì. Da quando sono venuto a sapere che Giada è stata bocciata, a Montebelluna non ci vado più.


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