
Ammesso che questo sia un uomo
Di fronte a certi scempi bisognerebbe starsene zitti, in silenzio, a scavare nel proprio cuore quel tanto di pudore che serve a contemplare uno schifo del genere. Vorrei stare in silenzio, per dare a tutta questa faccenda una certa dignità; vorrei non partecipare, nel mio piccolissimo, al carrozzone di sfruttatori delle sfortune altrui, esprimendomi con concetti che per quanto possano essere giusti, profondi, sensati - ammesso, per assurdo, che lo siano -, non possono non essere che una pallida trasposizione della realtà, di una realtà grottescamente complessa. Vorrei, ma non resisto. Non resisto perché la rabbia, l'indignazione, la volgarità è troppa. Mi fa schifo l'idea che ci sia qualcuno disposto, come è disposta l'opinione pubblica israeliana e le comunità ebraiche di mezzo mondo, allo stupore. Mi fa schifo chi si è stupefatto dell'accaduto.
Ma dove ha vissuto questa gente fino ad oggi? Possibile che nessuno sapesse, immaginasse le violenze che Israele perpetra da qualche decennio a questa parte, da quando da intruso si è impossessato del Medio Oriente, come una persona che entra da ospite e finisce per cacciare il padrone di casa? E allora perché scrivo, perché se anche io non sono un minimo stupefatto? Perché proprio oggi se supponevo di sapere già da prima?
Non saprei, precisamente. Forse proprio perché sento di non sapere nulla. Più che certezze, ho dubbi e quasi me ne rallegro visto che questo schifo va in onda a causa di credenze piegate, violentate ai propri fini personali. Non ho certezze, non credo e scrivo questo non sapere.
Scrivo forse per i morti. Forse per il disprezzo che provo per questa ciurma d'intellettuali o presunti tali, che si esprime a botte di editoriali e paroloni e tutti con gli stessi vocaboli, gli stessi colori. C'è chi parla d'Israele vittima della propria storia, di un recente ed ancora cocente passato, della "sindrome dell'accerchiamento". C'è chi parla di "difesa da amici dei terroristi" non capendo che "il terrorista" è un semplice punto di vista, un'opinione e che anche noi italiani per qualcun altro - ad esempio per un afgano - siamo dei terroristi. C'è addirittura chi urla ai quattro venti che "Israele ha fatto bene a sparare" dimenticando qualsiasi senso di rispetto non del buon costume, non dell'intelligenza, non della decenza, ma, cosa primaria, dei morti. I morti son degni di rispetto più che dei vivi, almeno in questo trambusto, perché non lo schifo non c'entrano più niente.
Mi domando che mondo può mai essere un mondo che se ne frega anche della morte, che non si ferma nemmeno per un minuto di fronte alla soppressione di un esistenza? Che persone sono queste che non pensano, anche egoisticamente, che un giorno dovrà toccare a loro e che a sputare al cielo si finisce per sputarsi in faccia da soli? Ma che uomini possono mai camminare su questa terra se nemmeno della morte si curano? Cosa interessa a quest'uomo, se questo è un uomo, se nemmeno la morte gli interessa?
Ero in treno, non ho ricordi particolari, situazioni, odori, un viaggio come tanti se non fosse che ci entrai normale, in quel treno, e ci uscii senza alcuna speranza, provato. Lessi "Se questo è un uomo" quando ero un bambino, quando il mondo mi appariva più semplice, con i buoni ed i cattivi a contendersi qualcosa, e mi fece innamorare di quello che la lettura può significare, di quello che può comportarmi. Annebbiato dal tempo, forse dallo schifo non ricordavo questo particolare. Così ora ho ben presente che «in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché è ognuno è disperatamente ferocemente solo. Se un qualunque Null Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un "mussulmano" di più si trascini ogni giorno al lavoro...» mi fermo, leggo la nota: «con tale temine, "Muselmann", ignoro per quale ragione, i vecchi del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla selezione».
Non c'è alcuna speranza, mi dissi. Non c'è alcuna speranza per questo mondo se un uomo - ammesso che questo sia un uomo -, che chiuso in un campo di concentramento per un folle ed orrendo odio, non riesce a scorgere l'odio e scorgendolo non riesce a metterlo da parte.
Mi fa schifo quest'uomo che non mette da parte il dileggio, il rancore, le offese, l'odio nemmeno quando la sua sventura è dovuta all'odio, nemmeno quando è vittima, prigioniero d'un campo di concentramento e come tale dell'odio; e mi fa schifo quest'uomo che, di fronte a quanto appena successo, si sveglia dal suo torpore e si domanda il perché di tutto quest'odio.
«C'è ancora qualche motivo di odio che mi manca - scriveva un tale -. Sono sicuro che esiste».