
La confraternita dell’uva
Fine settembre, inizio ottobre. E’ tempo di vendemmia e per chi ha terreni a coltivazione vitivinicola inizia la raccolta del nettare degli Dei. Io mi ritrovo figlio acquisito di persone antiche, ossia, nate e cresciute con una particolare cultura, quella della terra che aveva un valore pari alla Reggia di Versailles, quando si campava naturalmente con vino e olio non trattati e non si moriva di tumore grazie ai veleni artificiali del millennio. Sono entrato, quindi, a far parte della confraternita dell’uva, ritenendo sia una delle cose più belle che ancora questa vita di merda ci può regalare. Un’ esperienza particolare, un appuntamento con un mondo assolutamente nuovo, ricco di neologismi e strategici modus operandi.
La confraternita è composta dalla madre, che ha chiesto il permesso alla sartoria per disertare qualche giorno, dal padre, che carica il trattore tra un viaggio col pulmino della scuola e un motore di motosega da rigenerare, dal figlio, ribelle e scapocchione, io, il novizio e il nonno partigiano, l’ineguagliabile Grande Capo.
Il pezzo di terra non è molto grande ma neanche tanto piccolo. “Quasi ‘nu muojo”, un moggio. Quest’ultimo è un’unità di misura composta da 33 are. Un’ara è pari a 100 mq e la terra in oggetto essendo “quasi”, ne conta 30. 3000 mq di terreno capace di una decina di filari, divisi in settori, da almeno 200 metri lineari ognuno. Coltivati ad aglianico, falanghina, sangiovese e coda di volpe e “coracavallo”. Bellissimo. Mentre i primi tre vini sono abbastanza diffusi e conosciuti, non rammento l’esistenza degli ultimi due. E’ necessaria un’integrazione culturale. La “Coda di volpe” è un vitigno particolare, rosso, dal caratteristico grappolo, pardon (!) pigna corta, gonfia in alto, carica di acini e man mano che scende si assottiglia fino a terminare a punta. Come la coda di una volpe, appunto. “Coracavallo” non è altro che coda di cavallo senza pause. Simile alla precedente immagino. No. Nel coracavallo la particolarità non è nella pigna, bianca, ma nell’acino. Stretto e lungo.
Con una tuta da meccanico, guanti da lavoro rinforzati da un paio in lattice “sinò te faje ‘e ‘ddeta nere”, scarpe da battaglia e forbici a molla, inizia la grande avventura. Le casse in plastica da frutta diventano “gabbiette” e si dispongono lungo il filare sotto ogni settore. Si afferra il grappolo che diventa “pigna”, si cerca l’estremità, si taglia e si deposita. Quest’anno l’uva è tanta, carica, e una cassa piena a settore è sinonimo di gran raccolto. Mi piazzo a non più di due spanne dal nonno che oltre a illuminarmi di nozioni su una buona raccolta, fa scappare qualche nostalgico aneddoto sulle lotte contro crucchi e fascisti tra le colline impervie verso Cusano all’ombra dei calanchi del ponte “Sprecamugliere”. “Guagliò ‘è pigne malamente le devi mettere sotto. Chelle ‘bbone sopra accussì in cantina nun se n’accorgono e nun facimmo figure e ‘mmerda!”. Esperienza. “Nanò! Addò ‘e fatt ‘o militare?” E lui con l’orgoglio a petto esposto quasi con i lucciconi: “A L’Aquila! Caserma De Amicìs”. Notare l’accento. Storia. “Nanò! Comm’erano i tedeschi?” E lui con uno sguardo da lupo ferito. Stringe la dentiera: “Fetienti! E gli americani erano pure peggio!”. Saggezza.
Le gabbiette sono piene e il vecchio Carraro ruggisce impavido tra i filari vuoti. La terra è bagnata a causa di una leggera pioggia mattutina. Il figlio scapocchione carica il carrello noncurante del fango che lambisce le cassette. La madre sorride e il padre s’incazza. “Strunz’! ‘O vvuò dice che ‘o carrello tocca ‘nterra? L’uva se fa ‘na chiavica! Che te pozzano accide!”. Il figlio ci mette il carico da unici e urlando come uno strillone invita il padre ad accelerare i tempi per sopravvenuto appetito.
Resoconto della mattinata: 4 ore di lavoro, 65 gabbiette, 150 quintali d’uva alla valutazione oscena di 30 centesimi al grappolo, 3 bestemmie, una ventina di imprecazioni goliardiche, tante risate, nessun canto dialettale scansafatiche e le scarpe infangate che pesano un quintale. Morale ottimo.