Centocinque primavere

Lungo la via centrale del mio quartiere, venticinque anni fa, c’erano, in serie, tre negozi: panettiere, generali alimentari, fruttivendolo-tabaccheria, distanti cinquanta metri l’uno dall’altro, quasi del tutto complementari. Se avevi bisogno del pane, andavi dal primo, poi scendevi dal secondo per la pasta, il succo di frutta, i ghiaccioli, il dentifricio (possibilmente quello con i tre colori tipo bandiera francese, o quello che sapeva di fragola), infine dal terzo, per pomodori, patate, insalata, mele (preferibilmente rosse), e, se necessari, giornali e sigarette.

Quasi del tutto complementari, perché il fruttivendolo, appena all’ingresso, aveva un congelatore con la calotta trasparente dove vendevano ghiaccioli più buoni che nell’altro negozio. Ghiaccioli nel senso vero, onesto e brutale - di acqua colorante e ghiaccio - che si presentavano perfettamente per quello che erano - acqua messa a gelare con zucchero e additivi - e non per ghiaccioli con la “frutta vera”, con un vago sapore di detersivo che toglieva ogni illusione al secondo o terzo assaggio, trasportandoti dalle spiagge della dja-me-ka al più acconcio terrazzino di casa.
I negozi erano a cinquecento metri da casa mia, e certe estati, quando i miei amici della via erano già in vacanza, andavo io a fare la spesa, sotto il sole all’andata, e sotto il sole al ritorno col terrore che si sciogliessero i ghiaccioli, giusto in tempo per rincasare e vedere alla tivvù una qualche variante dei quiz stagionali, programmati in replica o sostituiti da palliativi a costo-zero per piazzare regali-spot-prodotti di vario genere.

L’altro giorno, passandoci davanti in macchina per un saltuario ritorno, ho gettato l’occhio dentro al fruttivendolo, e l’ho visto vuoto. Niente ghiaccioli, ma, a parte la stagione, l’azienda ormai vende solo ai bar, me l’ha detto uno che ci lavora come custode. Niente più vecchi gestori, sostituiti da figli e figlie, che conoscevo da ragazzi e ritrovo invecchiati dietro il banco. Niente più clienti, o quasi, il negozio vive solo di giornali e di tabacchi, cui si è aggiunta da qualche mese la ricevitoria del lotto, dove le donne impellicciate che venticinque anni fa entravano a comprare centomila lire di frutta e verdura si giocano, oggi, qualche residuo della pensione in cappotti invecchiati peggio di loro. Niente più concorrenti, però panettiere e alimentari hanno chiuso da anni, e tocca farsi un settecento metri per raggiungere il nuovo ipermercato, con ampio parcheggio ed uno scaffale in cui, accanto a Danielle Steel o Dean Koontz, vendono anche Sciascia.

Nessuna macchina, tranne la mia, parcheggiata appena fuori, nel piccolo piazzale in cui mi sono entusiasmato nell’89, quando sembrava fatta per Vanenburg alla Juventus, e rattristato sei mesi fa, quando ho casualmente scoperto della morte, certo non prematura, della donna più vecchia del quartiere, che conoscevo di striscio.
Aveva centocinque anni, centocinque primavere passate in questo quartiere. La stessa età di mio nonno, che però è morto ancora nel ’75, alzandosi da tavola, tossendo, e svanendo di colpo sul divano a pochi passi, lo stesso divano su cui, anni dopo, mi sedevo a guardare Riccardo Scocciante cantare la sigla dell’ennesima Domenica In condotta da Baudopippo, con canzoni tipo pedalando in bicicletta o qualcosa del genere.
Centocinque primavere e l’ovvia, chiara percezione di essere sopravvissuta a tutto, e quasi a tutti. Come l’ultimo ghiacciolo della confezione (solitamente l’anice, che persistono a spacciare per gusto “puffo” come se la cosmesi linguistica lo migliorasse), l’ultima riposta del tabellone del quiz, l’ultima schedina del lotto, l’ultimo cliente del fruttivendolo, appena prima di spegnere le luci ed abbassare la serranda del negozio.

A volte, vorrei essere come gli alberi, o come i cani, che crescono fino ad un certo punto e poi si fermano, resistono, persistono, non vanno oltre e rivivono giorno dopo giorno un presente che è sempre fermo, sempre nuovo perché privo del passato e di quello che era prima. Forse, anche di quello che sarà poi, qualunque sia il poi.

Un tempo ed un luogo dove nulla, veramente, accade, e centocinque primavere sono immutabili come quella a venire.


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