
La politica, Vallanzasca, Placido ed Eva Kant
Quasi chiunque avrà da poco finito di godere della polemica mediatica (politica) messa in moto dall’ultimo film dell’ottimo Michele Placido, qui in veste di solo regista, che nuovamente ha dimostrato di sapercela davvero fare.
Punti di vista, certo, ma il film “Vallanzasca, gli angeli del male” è davvero ben fatto, confezionato a norma, girato bene, con delle ottime riprese ed uno strepitoso Kim Rossi Stuart; l’ambientazione è la solita fotografia molto cara al regista di un’Italia particolarmente difficile (quella a cavallo degli anni 70/Piombo) che Placido ha già ampiamente fatto capire di prediligere nelle sue tematiche di rottura violenta con la società e le leggi del tempo.
La differenza minima è che questa volta il tema centrale del lungometraggio non ruota attorno alla protesta corale (per quanto sbagliata) del terrorismo, un movimento che definirei storico e culturale nel senso più ampio del termine, o attorno al fenomeno oligarchico dell’organizzazione di potere criminale mafiosa, bensì racconta in modo credibile ed esauriente le gesta (certo discutibili) di un criminale semplice nella sua vasta complessità, e della sua banda. Una sorta di “Romanzo criminale 2” con un nuovo protagonista, si badi bene, non un nuovo eroe.
Non si tratta affatto di “apologia del criminale” com’è invece stato detto più volte anche dalla stampa oltre che dai nostri politici, anche se sicuramente la visione di questo film non potrà affatto essere cara ai familiari colpiti.
Personalmente, una volta giunti i titoli di coda, non ho pensato cose diverse da quelle che già pensavo prima della visione del film. I miei pensieri sono rimasti gli stessi, derivanti sia dall’esperienza diretta (certo ero solo una bambina ma me ne ricordo molto bene, comunque) sia dalla conseguente “curiosità documentativa” sopraggiunta con la maturità, nel corso degli anni.
Insomma, non ho visto tutta questa esaltazione violenta del crimine e della sua progettualità, non ho visto il rispettoso elogio di un regista nei confronti di un (suo) mito.
Ho solo visto raccontata molto dettagliatamente, nuda e cruda, la (discutibile) vita di una persona che scientemente, cioè potendo scegliere, ha deciso di seguire il crimine, non da vittima dello stesso, ma come si sceglie un mestiere.
E soprattutto da amante dei fumetti quale sono, il paragone che immediato mi è saltato alla mente è quello con un altro anti-eroe, ma celebrato ed osannato da decenni interi, da fiumi di carta stampata e gadgets vari e che io stessa ho seguito per anni: l’efferato ladro ed assassino (questo soprattutto), il genio del male, amante del lusso e del bello, crudele e coraggioso, sfrontato ed imprendibile, Diabolik, stesso figlio di androcchia, solo più monogamo o meno puttaniere.
Certo, uno è reale, l’altro è pura finzione.
Ma non capisco comunque perché si debba condannare Placido e al contempo continuare ad osannare le sorelle Giussani per la loro prolifica produzione quarantennale, quando a ben vedere, i loro intenti sono in fondo comuni, e cioè raccontare semplicemente una storia, comunque sia stata.