Itaca Hotel

La cosa migliore, da sempre, è il mare fuori stagione. Fuori stagione vuol dire non in estate: troppe persone, troppo caldo, troppa sabbia, troppe barche, troppo Righeira, troppo "abbronzatissimo in preda ad uno spasimo", troppo; ma non vuol dire neppure in inverno, troppo vento, troppe onde, troppo vuoto, troppo Ruggeri-Bertè, troppa estate che se ne va e quando torna “sai a me cosa fa”, troppo pure qui.

Il migliore dei fuori stagione, per me, è l’autunno, meglio se ha quella coda di caldo che ti rende libero di camminare, fra gli odori di ultimi fiori che sbocciano, scambiando la fine del beltempo col suo inizio, come chi scambia gli ultimi anni di vita con la sua adolescenza, e prova a ripartire nei locali da ballo che vedo lì in fondo, sulla strada, “aperti tutto l’anno”. Ovviamente, con orchestra “dal vivo”, che poi vuol dire voci e cori su basi registrate tanti anni fa.

Fuori stagione è l’inizio dell’ultimo ottobre, un sabato pomeriggio libero all’improvviso, una finta qualsiasi per ritrovare due ore di silenzio, e via lungo il braccio del porto, due chilometri che si protendono verso il mare, fanno un lieve deviazione verso sinistra a metà cammino, ed in fondo fino al faro rosso, che non ha mai salvato nessuno, non serve a nessuno, ma farà luce anche stasera, come allora, come sempre e come domani, per chiunque incroci questo orizzonte.

Se sei bravo, se prendi l’angolazione giusta ed impari a dimenticare, in fondo al braccio del porto puoi fingere di essere nel pieno di quell’orizzonte, puoi ignorare la città alle tue spalle e rimanere perfettamente sospeso fra l’azzurro mobile del mare screziato dalle onde, e l’azzurro immobile del cielo senza una nuvola, col riverbero di un sole troppo debole per scaldare, ma troppo vivo, ancora, per fingere un calore che non c’è.

Una finzione di azzurro, ed una finzione di solitudine, circondato da pescatori che cercano questo posto per veder emergere dal mare pesci che non porteranno mai a casa; nuotatori del quartiere della marina, con mazzi di carte, birre e tavolini improvvisati per giocarsi gli spiccioli a carte e far saltare il banco quando i conti non tornano; una giovanissima coppia che rivive le vacanze appena trascorse in una di quelle goffe passeggiate a due che puoi fare solo se hai la testa dell’adolescente, a qualunque età; la donna incinta che prende il sole mentre il marito parla con l’amico invadente a proposito della nipote che calcia il pallone come un uomo, ed è pure una bella ragazza, e tutto “addàvenire”.

Tutto “addàvenire” e tutto “passinnanzi” in fondo al faro, in mezzo al finto oceano dove si spalancano i finti infiniti di un piccolo golfo, mentre stai in una pozza ai margini del mondo, che se lanci una pallina giusto all’altezza dei tuoi occhi – ipotizzando l’assenza di attrito di gravità di ostacoli – ti tornerebbe tutto indietro dopo essere passata dalla Grecia, dall’Egitto, dall’Oceano indiano, pacifico, Polo Nord, Islanda, dall’Irlanda e dalla Francia.

Ti tornerebbe tutto indietro, perché nulla, davvero, se ne va, come se dall’ultimo orizzonte cominciassero a spuntare le vele, e dopo di esse le barche, e sulle barche tutto quello che hai perduto, e che hanno perduto gli altri prima di te: e così vedresti la parente che non hai mai conosciuto “perché è morta a diciotto anni poverella, e la madre poi di crepacuore”, lo zio anziano che ha tentato di suicidarsi a novant’anni “ma poi l’hanno salvato ed è morto sereno nell’ospizio dietro casa”, la classe delle elementari e la gita a Venezia che “poi non ci siamo più tornati”, l’ellepì che avevi prestato a quelli di Roma e chissà che fine ha fatto, la cosa che hai scritto questa mattina e l’hai persa perché word non funziona bene, il sorriso che hai dimenticato e quello che non hai restituito, gli occhi verdi e i capelli sciolti, il pallone andato al largo ed i fastidi di ogni età, perché essere felici è possibile, ma anche no.

Prendo e me ne vado perché mi aspettano, dando un ultimo saluto alla donna incinta, che guardava il mare come me. So che è una bambina. Non so nemmeno se qui ci torno; ma sarei felice se la bambina vedesse, un domani, tornare me.


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