
Portinariato
Per varie ragioni, da qualche tempo alla mattina esco abbastanza prima del solito per recarmi al lavoro, e volendo variare un po’ la routine ho anche deciso di cambiare tragitto e quindi mezzi di trasporto. Più di uno, purtroppo. Il tempo che perdo in questa occasione è abbastanza considerevole ma lascia spazio a molte riflessioni, sempre che se ne abbia voglia già a quell’ora.
Abitando a Milano ed avendo un’affezione particolare per questo mezzo, la prima parte del tragitto (prima di inabissarmi in metropolitana) la passo sul tram, possibilmente in zona finestrino con musica in cuffia, anzi cuffiette, ci tengo a sottolineare: non sono fautrice del ritorno alle “cuffie dimensione Rischiatutto” per l’ascolto stradale.
Ho quindi modo di osservare le persone che incrocio, quelle che mi si muovono intorno, a volte al fianco, o sui marciapiedi, habitués come me della fascia oraria di primissima colazione, quelli che a volte hanno ancora le righe del cuscino stampate sul volto, o i capelli schiacciati sotto il peso dei sogni. Mi piace sbirciare le espressioni, indovinare gli umori dalle rughe di queste, provare ad immaginare il tipo di lavoro dall’atteggiamento o dall’abbigliamento per quanto l’abito non faccia il monaco, specie nelle metropoli.
Certo, e nelle metropoli è abbastanza usuale che gli stati umorali e le espressioni facciali di cui sopra siano fin dalla mattina presto sull'incazzoso andante, specie in spazi di poco più di un metro quadro, da condividere con minimo altre nove persone ridotte a sardine, con le quali ci si riduce ad avere più intimità che coi propri cari la sera…
Quello che mi colpisce maggiormente è l’attività frenetica da formicaio degli addetti al lavoro di portineria nei palazzi condominiali, per signorili o modesti che siano.
A quell’ora li trovi già tutti fuori, sul marciapiede adiacente, rossi paonazzi per il freddo pungente del mattino invernale, con sempre le stesse giacche, con la loro canna dell’acqua che brandiscono stile frusta e la loro scopa a prova di asfalto, lì che puliscono e puliscono e puliscono ogni mattina gli stessi trecento centimetri quadri di androne, di marciapiede, di passo carraio con la stessa cura e gli stessi gesti di ogni mattina.
Passandogli a fianco quasi ti viene voglia di chiedere scusa per la tua invadenza e le tue suole non proprio monde che vanno a rendere del tutto vano lo stesso rito del giorno prima e di quello prima ancora.
Ed ogni volta non posso fare a meno di chiedermi che senso abbia (far) pulire l’asfalto non tanto ovviamente da tracce di urina umana e non, o a volte da bottiglie, cartacce e sputi, quanto piuttosto da quei pochi variopinti petali secchi volati da balconi striminziti, quelle poche foglie morte di dimensioni lillipuziane lasciate da alberi decennali che a dispetto del progresso affondano le loro radici nell’asfalto, contro ogni logica umana e buon senso, o da quelle centinaia di migliaia di passi che da anni solcano marciapiedi e vite umane, raccontando chissà quali storie di miseria o felicità, gioventù o decadenza, di parcheggi disperati e richiesta di elemosina, di capannelli di ragazzi davanti ai citofoni o all’aperitivo del bar a fianco.
Mi stupisce ancora questa ostinazione a fornire un decoro di facciata, proprio quando si sa che quello che si vorrebbe lustro e lindo non è il parquet del salotto buono ma il marciapiede di catrame antistante il portone condominiale, ma che proprio i condomini vogliono lindo. E quindi ogni mattina ed in ogni angolo della città, loro sono lì, caparbi e a decine, a condurre la loro battaglia personale e irrisolvibile contro l’asfalto, contro il perbenismo borghese e il bisogno altrui di avere sempre il controllo su tutto, perfino sull’assurdo.
Una di queste mattine lo faccio… ne fermo uno a caso e glielo dico: “Lascia stare, tra mezzora è come ieri. Piuttosto vatti a prendere un caffè al bar, ce l’hai proprio di fianco. Vedrai che non se ne accorge nessuno”.