Diceva di conoscere l'universo e che lo avrebbe spiegato tutto e in breve.*

Un manipolo di straccioni sdentati faceva quotidianamente la fila sotto la modesta statua di Confucio proprio al centro della piazza, diligentemente compivano questa pittoresca liturgia, attendendo in buon ordine il proprio turno per sbevazzare un po’ di zuppa all’aglio e ruminare un tozzo di pane rancido.
Da li, con un po’ d’attenzione, era possibile percepire la pungente puzza di piscio esalata dai marciapiedi della Bowery poco lontani.
Nel 2003, durante la mia prima e unica trasferta newyorchese, il CBGB’s lo riconobbi così: seguendo come un beagle infoiato e ad orecchie dritte, l’odore dei resti fisiologici dell’umanità sgraziata cantata da Lou.

Quella, nel mio immaginario, era e rimane la sua cifra stilistica. La prima e più forte delle suggestioni che, alla fine dei 40 e dispari minuti di VU&N, mi arrivava.
Il disastroso missaggio della prima versione in cd contribuiva non poco a calare tra le mura di un orinatoio quella parata di spiantati, raccontata da una voce che pareva quella di Dylan sotto anfetamina.
Piscio, diseredati CBGB’s e anfetamine... se penso a Lou, cos’altro?

Mi accomodo su una chaise longue, un uomo con barba, occhiali e giacca in tweed base cachi si appollaia dietro di me. La sua giacca, la posizione da pappagallo del pirata suggerisce che lui (pochi cazzi) è di scuola freudiana. M’invita a continuare.

L’erezione. Quella del tipo col berretto di pelle nera nella quarta di copertina di Trasformer. Io però l’erezione non ce l’ho nel vinile prima stampa italiana, c’è una pudica banda censoria proprio sul pube che rende impossibile financo immaginarsela. La scoprii anni dopo, a casa di Nico Gariboldi..

E poi cos’altro, pensando a Lou?

Il suo ridacchiare nervoso tra i versi è mia moglie/è la mia vita, su Heroin.
La circolarità mesmerica di Venus in Furs, con la viola che progressivamente squadra.
L’attacco all’arma bianca di Vicious.
Gli psicodrammi, a tavola, con Lester Bangs.
L’illibata musa teutonica. Stronza.
Le sue decine di I don’t care: cariatidi punk del mio pensiero.
Il dilemma interpretativo, un po' ignoranza un po' corto circuito emotivo, di you just keep me hangin’ on su Perfect Day: mi tieni sospeso o mi fai penzolare? La differenza, mi consenta Doc, è significativa.
Le serate alcoliche con Sandro e Massimiliano.
Giovannini che quel disco non l’ha mai capito.
Gariboldi che voleva essere Lou.
Marco, col culo pizzo, che era trasformer-dipendente.
Alfredo che masticava il disco della banana con rispettosa circospezione.
Esteban che si faceva tisane di Metal Machine Music.

E qui mi fermo perché, pensando a Lou, ho più ricordi che se avessi mille anni.

Trascinato fuori da queste intermittenze personali, Reed resta solo l’eminenza grigia con gli occhiali scuri dietro al disco più importante della storia della musica rock. Sono pronto imbracciare la pistola, scegliere un padrino e fare venti passi, mostrando la schiena, a chi non è d’accordo. Quel disco dalla cintola in giù l’ha cacato Lou, dalla cintola in su l’ha meditato un violista scozzese dal talento sovrumano e l’idiosincrasia per il rugby. Loro hanno portato le bistecche, il vino e le droghe, Warhol ci ha messo la casa e le donne. La mattina dopo, svegliandosi, tra la nausea e l’eccitazione partì il giro di Sunday Morning e nulla fu più come prima.

Il CBGB’s has gone.
Da qualche giorno pure Lou.
Di quella puzza di piscio non ho più notizie da dieci anni.

L’auspicio feroce, ora che se ne è andato, è che in quel luogo più mentale che geografico chiamato Bowery, seduto a terra con una chitarra accanto (forse un laptop, a qualcuno importa?), ci sia un giovanotto del ’90 emaciato e dall’aria insolente, con una dose nel taschino e 26 dollari in mano.

(*Titolo: è quello di una poesia di Reed contenuta in una vecchia raccolta di suoi versi che ho perduto in uno dei miei tanti traslochi.)


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