Terra mia

“Terra mia, comm'è bello a la penzà'. Terra mia, comm'è bello a la guardà.”

L’urlo liberatorio di un uomo che vaga, erra, cerca incessantemente qualcosa che è nascosto dentro di sé. Urla, evoca ardentemente ciò che lo circonda. Non fa rumore però, lo dice sommessamente, in modo pacato, quasi sussurra quattro parole su due accordi di chitarra arpeggiati.

“Terra mia, tu si' chiena 'e libbertà. Terra mia, i' mò sento 'a libbertà.”

Anni settanta. Un giovane ragazzo con la mania per il Rock americano e la canzone melodica partenopea gira per le viuzze della sua città.
Ma non si tratta di una città qualunque: stiamo parlando di Napoli. Una metropoli particolare, affollata, variopinta, ricca di mille colori, colma di etnie, culture e religioni diverse.
Azzarderei l’aggettivo “fumosa”.

Il ragazzo, dai lunghi capelli ricci, gira con in mano una vecchia chitarra acustica, di quelle “vecchio modello”.
A prima impressione ci sembrerebbe un ragazzo come tanti, ma all’apparenza notiamo un qualcosa di diverso dagli altri. Nei suoi occhi c’è la voglia di fare, la determinazione; i suoi polmoni sono pieni di profumo di mare, perché chi tene 'o mare 'o ssaje, nun tene niente; il suo cuore è innamorato della musica, quella che senti alle radio o sugli antichi ellepì, quella che fuoriesce da ogni finestra, da ogni portone, quella che evapora dai meandri più nascosti delle stradine di periferia (la musica musica, è tutto quel che ho si sarebbe detto). Il ragazzo ha piena consapevolezza che un giorno diventerà qualcuno.

Ecco Pino, mi piacerebbe pensare che fosse andata veramente così. Mi sembra ancora di vederti, insieme a James, Tony ed agli altri, nel pieno degli anni ottanta ad aprire il concerto di Bob Marley a San Siro, oppure in Svizzera dove ti immortalasti con un Live favoloso che è rimasto negli annali. Dico “vederti” in senso metaforico ma significativo, perché quelli della mia generazione non hanno avuto il privilegio di assistere alle tue performance dal vivo quando eri nel pieno dei tuoi anni. Ma utilizzo il presente perché per quelli come noi (e mi sia lasciato passare anche il riferimento allo splendido pezzo di Claudio Lolli), innamorati della Napoli Vera, non quella pizza e mandolino che tutti conoscono, ma quella Autentica, quella dei vagiti progressive-psichedelici del giovanissimo Alan Sorrenti, del Rock n’ Roll politicizzato ed incazzato di Eduardo Bennato, di “Palepoli” degli Osanna e di “Ys” del Balletto di Bronzo, dei mitici Napoli Centrale del tuo grandissimo amico James Senese, per noi sei stato e continui ad essere un tassello fondamentale, uno vero fino in fondo, insomma. Il primo ad esportare il dialetto napoletano nella sua totalità, a coglierne le svariate sfumature, a renderlo addirittura una lingua universale, ed uno dei primissimi a stravolgere la figura del cantautore italiano, tutt’altro che solo “poesia e chitarra”, ed ad ampliarla, a far si che anche la musica sia considerata fondamentale per il giusto assetto del “formato canzone”. Tu, come i tuoi altri illustri colleghi che ho citato poc’anzi, siete stati i veri cantori di Napoli, di ‘na carta sporca e di cui nisciuno se ne importa, anche se sotto sotto a sape tutti ‘o munno, ma nun sanno a verità.

Ma Pino, tu lo sai meglio di me. Quanno chiove l’acqua te ‘nfonne e va, ed anche se l’aria sadda cagnà, capita che a volte l’appocundria me scoppia ‘mpietto, e si ha tanto bisogno di alleria. Oggi il cielo non è “Nero a Metà”, come tu dicevi, e convenga che ogni riferimento a Mario Musella sia considerato vano.

Oggi il cielo è tutto Nero. Il Re non c’è più. “E’ muorto ‘o ‘rrè, viva ‘o rrè!”

Te ne sei andato, senza un avviso o un messaggio. Sei volato via, a bordo della tua Gibson nera, lì tra le nuvole, forse alla ricerca del tuo amico Massimo Troisi, oppure con la voglia di farci un bello scherzo, da buontempone il quale sei. Il fatto è che per noi lo scherzo è durato fin troppo, e ci sono molti che stanno prendendo sul serio la faccenda. Non dobbiamo piangere, non lo vorresti.

Non ti ricordi anche tu? Lo dicevi in un pezzo di qualche anno fa, assieme a O’ Zulù dei 99 Posse: “dice ca 'o rre' è muòrto, ma nuje nun c'amma amareggià”.

Ed allora siamo scesi, anche se con la tristezza nel cuore, a farti un ultimo omaggio. Ci abbiamo pensato noi a ricordarti, a Piazza del Plebiscito. Eravamo in centomila, e forse ne staremmo stati anche di più se avessimo potuto, a gridarlo ad alta voce. Se ascolti bene da lassù, forse ci senti. “E’ muorto ‘o ‘rrè, viva ‘o rrè!”

Anno duemila quattordici. Un giovane ragazzo, con le cuffie nelle orecchie, sta tornando da scuola. Fischietta un motivetto: putesse essere allero cu nu spinello 'mmocca, cu ' e mmane dint'a sacca. Poi continua a cantare tra sé: putesse essere allero cu na parola sola, ca me desse calore senza me fà' sunnà'. Lo nasconde, lì sotto i capelli ricci, ma ha quasi gli occhi lucidi.

“Uè, Massimù!”
“Pinù, ma si tu?”
“Dinte a nuttata m’ha fatto male ‘o core, aggio avuto paura assaje. Poi all’improvviso è frnute tutte cose e m’aggio sentuto liggiero liggiero, comme a n’auciello purtato do viento e so arrivato cà.”
“Che ce vuò fa, Pinù. O ssaje comme fa ‘o core.”

Ciao Pinù. Sona mo’!



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