La musica ha, da sempre, accompagnato i nostri viaggi. Se un tempo era un mangiacassette incastonato nel cruscotto, adesso sono gli ultimi ritrovati della tecnologia a regalarci le melodie che, piacevolmente, si sposano con l’arte dello spostamento…dell’attesa… e del ritorno.

Il più delle volte la musica è contorno o sfogo, a volte, solo a volte, diventa la protagonista di un percorso proprio. É il caso dell’album in questione. Questo disco ha la proprietà di far volare chi l’ascolta, di trascinarlo ai confini del Mediterraneo e dell’Oriente, di fargli conoscere intagliatori di cucchiai, mariachi ubriachi e bar tagikistani. Senza forzature, con lo sguardo vigile, ma sognante. Se Corto Maltese avesse bisogno di una colonna sonora, questo disco gli calzerebbe a pennello…

Il primo brano, “Le Fonti”, è un invito a immergersi in un mondo diverso, dove le “fonti pulite”, citate dall’autore, altro non sono che la nostra storia, la nostra conoscenza e, perché no, i nostri padri cantautori che per primi ci hanno mostrato la strada. La danza di “Carmelita” e della sua fisarmonica ci accompagnano al terzo brano: “Il Demone del Tardi”, che rappresenta per chi scrive una delle vette del disco, soprattutto per la scelta musicale assolutamente controversa rispetto al resto dell’album, che tuttavia ben rispecchia la carica eversiva dei versi recitati del protagonista: “…e a me dice il dottore che scimmie così verdi nei sogni del paese lui non ne ha viste mai…”. Alla cura è meglio l’autoanalisi, più consolatoria per il nostro folle che si sente “solo che è una bellezza”.

L’amore amaro di “Un Destino Distante” fa riaffiorire il tema del viaggio e del viaggiatore (“…e io un dolore viaggiante…”), che si fa faticoso senza una mano che ti accompagna lungo il percorso.
Veniamo rinvigoriti dalle luci dell’”Oriental Tagikistan Bar”, dove potremmo fermarci per un misero mestire e per smetterla di pensare a Lei. E Lei, effettivamente, scompare. Offuscata dai colori e dalle luci dell’Oriente, del Nord-Africa, del Nostro Mediterraneo. Riappare d'incanto più tardi, dopo viaggi e miraggi, addomesticata in un canto volutamente semplicistico qual è “Difficile l’Amore”. Ormai la strada ci ha insegnato a dare la giusta importanza alle cose, a parlare per proverbi, seppur caustici. A margine di questi brani “Bianca”, altro apice del disco, che unisce dialetto e italiano in una ballata struggente, dove la nebbia, un maggiociondolo, neve e nottole fanno da corollario a una vicenda di solitudine e morte in un fiume mantovano. Quasi gucciniana nel rendere così bene lo scorrere dell’acqua e della vita, ricordate “La Ballata degli Annegati”?

Il disco si chiude con altri brani di evidente caratura artistica che non fanno che consolidare una valutazione che, fin dalle prime note del disco, ci appare ovvia: ci troviamo tra le mani un piccolo gioiello sonoro da custodire con cura. Una “fregatura” che ci costringe a guardare verso la bellezza del mondo, indicandoci una rotta inaspettata. Regalandoci ancora un'ipotesi di obliata speranza.

E lasciamoci accompagnare da questo Virgilio, che la selva oscura prima o poi finirà…

P.S. Nell’ultimo annuario del Mucchio si menzionano anche gli Assalti Frontali.
Dell’album di Maler, vincitore tra l’altro di un premio all’ultimo Tenco, nessuna traccia.

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