Totò nonostante tutto è sopravvissuto. Ha battagliato ma è sopravvissuto. E' sopravvissuto ai tentativi dell'amata Liliana (la figlia) di beatificarlo, agli agguati delle illustri intelligenze del nostro paese, al saccheggio del suo repertorio da parte della televisione commerciale, alle iniziative "istituzionali" per musealizzarlo, alle trasfigurazioni che di lui sono state fatte in nome di questa o quella interpretazione della sua famigerata "maschera". E' uscito indenne anche dalla solita solfa della schizofrenia principe/Totò nella quale hanno inzuppato il pane tanti, forse troppi. E poi ha vinto la sua lotta contro i produttori che gli costruivano intorno film infarciti di musichette, dive balneari, Geronimi Meynier (destinatario di un odio sconfinato nei secoli dei secoli), storielle d'amore adolescenziale. A dir la verità, la comicità del nostro aveva bisogno di film un pò banali, come del resto lo è la vita, per erompervi tutta la sua forza liberatrice e rivendicare il diritto di ridersela di tutto, di tutti e eziandio di se stessi. Totò. Ma cos'altro potevi e puoi chiedere se non che rimanga sempre solamente Totò. Totò è l'unica "cosa" di Napoli che sconfigge in ogni istante il suo stereotipo sempre pronto ad ingabbiarlo e la sua maschera passa disinvolta dalle bancarelle dove giganteggiano le sue foto (sempre le stesse, cronicamente retoriche) agli intellettualismi di tanti scrittori che periodicamente gli dedicano convegni e saggi, senza mai fossilizzarsi.

Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi è uno dei suoi film migliori.  Totò vi interpeta il cavaliere Cocozza "della premiata pasticceria omonima", mentre Fabrizi è il ragioniere D'Amore, impiegato al ministero, padre del Geronimo di cui sopra che, secondo copione, si innamora della figlia, biondina e garbata, del pasticciere. Il pregio del film è nel confronto tra Totò e Aldo Fabrizi: Fabrizi, a differenza di Peppino, non è semplice spalla e bersaglio di battute, ma è vero antagonista e lotta -invano ma lotta- per porre argine all'impetuosità di Totò. Fabrizi incarna la mentalità impiegatizia di quegli anni, modesta ma decorosissima, e si scontra con la chiassosa e arrogante esuberanza dell'imprenditore-parvenu Totò dando vita ad un duello che , grazie anche ad una decente scenggiatura di Castellano e Pipolo, gonfia le vele di un film altrimenti statico. Mario Mattoli costruisce una cornice credibile attorno a questa coppia d'assi, aiutato anche dalla (davvero) mitica Rina Morelli nei panni della signora D'Amore e dalla voce narrante, in dialetto ciociaro, di Nino Manfredi.  

La trama in parole povere è il solito canovaccio: due giovani, (ma era davvero così squallida la gioventù dei sessanta?) studiosi responsabili, lui ha la gobbetta, lei il volto di un cerbiatto ammaestrato per lo zoo cinematografico, si innamorano e intendono sposarsi nonostante i rispettivi padri, per incompatibilità comica, sono avversari prima ancora di conoscersi. Le mogli, motori silenziosi e instancabili della tresca, si fanno in quattro perchè i due giovincelli possano coronare il loro sogno nuziale. Iniziano allora le baruffe su chi debba accollarsi le spese del viaggio, del pranzo, della casa per i futuri nipotini.Superato anche lo scoglio di una partita di colombe "Cocozza" andate a male e svendute, mediatore Fabrizi, al ministero dove il ragioniere D'Amore è impiegato, sembra essere stato raggiunto l'equilibrio. Ma basta che il cavaliere Cocozza ricordi di aver visto il ragioniere D'Amore anni addietro vestito da militante durante una parata fascista per buttare tutto all'aria. Faticosamente ricucita la frattura i due dovranno accettare il fatto compiuto (dalle mogli) causa disguidi sartoriali. Sia chiaro una trama che neanche Fellini sarebbe riuscito a vitalizzare, ma Totò e Fabrizi bastano (e ce ne è d'avanzo) a farne un film memorabile. Un film che se vedo passare in televisione non posso fare a meno di gustare, anche se per ipotesi stessi vedendo Dreyer, Wenders, Kurosawa.

Totò alla fin dei conti vale mille ore di film consigliati da "Il Mereghetti", ed è questo uno dei più bei paradossi del cinema. Insomma al cinema si va per emozionarsi, non per sorbirsi qualche riduzione di trattati filosofici (non c'entra nulla con i tre registi sopra menzionati) o, peggio ancora, qualche labirintica vicenda , cervellotica o astrusa. Emozionarsi. E in fatto di emozione non c'è nessuno (a parte Alan Arkin e Buster Keaton) che riesca a volgerti l'animo al sereno come Totò.


"sì, ma l'ho già visto e non mi piace questo film  
c'era musica e pianto e lui diceva "è colpa mia"  
c'era sogno e possesso e lei diceva "è colpa tua"  
voglio Totò, non voglio l'amor!"
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