[Contiene anticipazioni della trama]
Ci vorrebbero più film come Pride, questo è il primo pensiero che mi è balenato in mente uscendo dalla sala. Warchus non sottrae nulla alla problematicità dei fatti storici ma riesce comunque a costruire un meccanismo cinematografico funzionale e capace di intrattenere. La forza di Pride sta proprio qui: se opere come Due giorni, una notte o Le meraviglie cercavano di raccontarci la realtà senza filtri, privandola quindi anche di ogni ricamo estetico dato dalla rielaborazione filmica, questa pellicola lavora sui due binari paralleli: sonda la realtà e la storia nella loro effettiva drammaticità, non sono concessi sconti, ma riesce allo stesso tempo a costruirci sopra sovrastrutture estetiche che alleggeriscono la visione.
La gestione dei personaggi è in questo senso magistrale: vige un profondo realismo nella costruzione dei profili individuali, non ci sono forzature che spingano verso una caratterizzazione amplificata di persone che erano e devono rimanere normali. Pur evitando di calcare la mano però i caratteri dei vari protagonisti emergono con preziosa delicatezza e grazie a questo naturalismo ritrattistico si sedimentano ancor di più nella mente dello spettatore. Nessuno è protagonista e lo sono tutti; è un vero e proprio film corale, che riesce a ritagliare a ognuno il proprio spazio. I fili che si intrecciano sono veramente numerosi, ma la gestione è perfetta nel dosaggio equilibrato dei vari percorsi. Anche in questa distribuzione diegetica il film è profondamente democratico.
Altro fattore decisivo è l'eleganza con cui si tratta il tema: scelta saggia è quella di non mostrare i protagonisti omosessuali nella loro dimensione più festaiola ed esibizionista. Anche da questo punto di vista, vige un equilibrio profondamente egualitario. Il gruppetto dei ragazzi gay e delle lesbiche viene ritratto nella sua grande dignità, senza aver bisogno di mostrare chissà quali effusioni o rapporti per misurarne l'alterità rispetto al contesto. La morigeratezza di Warchus è incredibilmente efficace pur lavorando in sottrazione, sia verbale che iconica. Non abbiamo discorsoni, pippotti moralistici, scene madri di trionfalismo omosessuale; al contempo, non si insiste per niente nel voyeurismo degli amori gay. Questa scelta permette al regista di plasmare una sequenza di pura poesia come quella del bacio tra Joe e un ragazzo durante il concerto di beneficenza; delicata, appena accennata dai profili in penombra dei due ragazzi, ma per questo fortissima e non esibizionistica.
Sarebbe stato un buon film, ma non eccezionale, se si fosse fermato a dare un messaggio puramente moraleggiante del tipo: guardate che bravi i gay di Londra che aiutano i minatori! I gay non vanno discriminati! No, Pride va ben oltre: non si intitola infatti Gay Pride, ma ben più icasticamente Pride, l'orgoglio che vuole insegnarci è ben più vasto e universale. Si tratta dell'orgoglio di ognuno di noi, della volontà di realizzarci per quello che siamo senza lasciarci ostacolare dalle forze castranti che agiscono nella società e nelle famiglie. Le sequenze finali non sono importanti tanto per la riuscita del Gay Pride del 1985: l'occhio del regista infatti non ha bisogno di dare legittimazione alla comunità gay, essa è accarezzata fin dal primo minuto ed è anzi il resto del mondo ad essere inquadrato come anormale; il pregiudizio è la malattia di cui si parla in questo film. Non c'è quindi bisogno di sottolineare la dignità e il successo inevitabile a cui va incontro il movimento gay.
Il vero cuore pulsante del film è insito nei primi piani del finale: lì ci viene raccontato come la vita delle persone che ci sono state mostrate seguirà un'iperbole di orgoglio e profonda dignità, ognuno di loro percorrerà la propria strada senza esitazioni, nonostante le avversità, a volte insormontabili. La lotta contro l'AIDS di Jonathan è vincente, quella di Mark invece no: ma la sua vittoria sta nel continuare a manifestare per i diritti civili sino alla fine, si concreta lì il suo orgoglio. Allo stesso modo, la scelta della timida casalinga Sian di laurearsi è una vittoria, l'outing del non più giovane Cliff è una vittoria contro le meccaniche del perbenismo borghese, la scelta di Joe di ribellarsi alla famiglia, la decisione dei minatori di supportare la manifestazione del Gay Pride. Insomma, l'orgoglio e la volontà di imporsi energicamente contro la morale comune e le logiche deleterie di una società retrograda non si limitano al dissidio tra omosessuali ed etero, coinvolgono invece tante realtà ormai cristallizzate che possono essere smosse solo dall'iniziativa forte di un gruppo di persone normali ma caratterizzate da una perseveranza encomiabile.
Mark, di fronte alle delusioni e al rifiuto dei minatori, sembra arrendersi; chiude la porta in faccia al passato. Non è un caso quindi che, una volta tornato, sia proprio lui il protagonista centrale del corteo del 1985: egli è sollevato dai compagni come per evidenziare metaforicamente l'importanza esemplare della sua vicenda. Non importa se due anni dopo morirà di AIDS, le sue azioni hanno segnato una conquista fondamentale per milioni di persone. Le mani che si stringono, inquadrate negli ultimi istanti, non rappresentano soltanto l'alleanza solidale tra gay e minatori, ma anche e soprattutto un'alleanza generazionale tra i pionieri che hanno lottato per diritti sociali che saranno in seguito ad appannaggio di tutti e le genti future che ne beneficeranno.
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