Spesso negletto e liquidato dai critici con il rango di Maestro “minore”, il compositore Max Christian Friedrich Bruch si è preso la sua rivincita direttamente sul campo, nelle orecchie e nei cuori degli appassionati, immancabilmente sedotti, oggi come 150 anni fa, dal fascino struggente del suo capolavoro: il Concerto per violino e orchestra n. 1 in sol minore, op. 26.
Nato a Colonia nel 1848, talento precoce scoperto da Ignaz Moscheles, Bruch sviluppò uno stile personalissimo, teso alla valorizzazione dell’ispirazione melodica, della cantabilità e del pathos, attraverso l’insistenza “conservatrice” nella semplicità diatonica e il rifiuto delle innovazioni e sperimentazioni cromatiche dei contemporanei Wagner e Liszt; non abbandonò questi canoni estetico-compositivi fino alla morte, nel 1920, a Friedenau.
Autore di diverse composizioni per violino e orchestra (tre concerti, la pregevole Fantasia Scozzese e una Serenata), di tre sinfonie, di un singolo movimento per violoncello e orchestra (“Kol Nidrei”) e di un’opera (“Loreley”), Bruch, però, assurge alla gloria della fama e della dignità artistica solo grazie allo stupefacente Concerto n. 1: un’opera che mescola, con formula irripetibile, equilibrio stilistico-formale e commovente cantabilità melodica. Tale sfavillante esito non poteva che mettere in ombra, nel confronto, ogni altro lavoro del compositore tedesco: questi, infatti, già in vita ebbe modo, non senza rammarico, di constatare la enorme, travolgente popolarità del Concerto n. 1, a fronte del minor interesse destato dalle sue successive opere, pur validissime, godibili in sommo grado e ricche di spunti interessanti. Sommettendo alla Vostra attenzione questo doppio CD Philips Classics serie Duo, contenente l’integrale delle composizioni per violino e orchestra, intendo quindi offrire una panoramica leggermente più ampia sull’opera di Bruch, e rendere giustizia ad una produzione artistica di livello comunque elevato, oltre che di gusto squisito. Tuttavia, per ovvie ragioni di spazio, la recensione sarà dedicata solo al Concerto n. 1.

Non era un violinista Max Bruch, ma di questo strumento si innamorò perdutamente: il violino, diceva, “può cantare una melodia, e la melodia è l’anima della musica”. Fu così  che nel 1864 intraprese la composizione di un’opera per violino e orchestra, forse originariamente una fantasia piuttosto che un concerto. Bruch, peraltro, ebbe modo di conoscere e frequentare alcuni tra i massimi virtuosi dell’archetto all’epoca, quali Pablo De Sarasate, Willy Hess, Ferdinand David e, soprattutto Joseph Joachim, che gli fu presentato da Clara Schumann. Da ognuno di questi carpì idee, consigli e suggerimenti da trasfondere nel suo lavoro. Completato nella primavera del 1866 e definitivamente impostato come concerto, l’op. 26 debuttò a Koblenz, con solista Otto von Konigslow, senza particolari entusiasmi. Deluso, Bruch vi rimise mano subito, stavolta con il contributo sostanziale del solo Joachim. Diversi furono i cambiamenti, molti apportati tenendo come modello di riferimento l’omologo concerto di Mendelssohn, anteriore di trent’anni, molti frutto della fantasia di Joachim, come la cadenza e diversi fraseggi nelle parti di transizione. Alla fine, nel 1868, il Concerto per violino e orchestra n. 1, op. 26 fu licenziato nella sua versione definitiva e venne dedicato proprio a Joachim, solista in occasione della nuova prima: il successo fu subito eclatante e non abbandonò mai, anche negli anni a venire, questa composizione.

Il Concerto è composto, in ossequio ai canoni tradizionali, da tre movimenti (due veloci inframmezzati da uno lento), ciascuno in forma-sonata, connessi l’uno all’altro, senza cesure, in un unico flusso ininterrotto. Il primo movimento, Allegro moderato, reca il sottotitolo Vorspiel (Preludio), traccia della originaria indecisione tra fantasia e concerto di cui sopra. L’apertura è affidata ad un lieve rullare di timpani e ad una malinconica frase esposta dai legni: in questa atmosfera mesta scende, delicatissima, la struggente melodia del solista. Poi ancora i legni. E di nuovo il violino, stavolta in maniera più assertiva: la frase è la medesima, ma dove prima vi era rassegnazione ora c’è decisione, la tristezza cede il campo alla collera. L’ultima nota prodotta dal violino sembra morire lentissima, vinta da un silenzio angoscioso. E’ solo un attimo, e d’improvviso esplode un sontuoso tutti orchestrale,  ad urlare un tema di maestosa tragicità e di squassante potenza. Subito è il violino a tornare protagonista, con un tema appassionatissimo ma esposto con brutale, fiera violenza: gli accordi sono sanguinolenti, pulsanti come carne viva strappata a morsi, mentre la linea melodica viene sputata via con passione e rabbia. In breve l’episodio trascolora in una sezione di lirismo celestiale, giocata sul registro alto del violino, con una serie di trilli a punteggiare la progressione ascensionale della melodia. Immediatamente dopo si entra nella sezione emotivamente più carica dell’intero concerto. Il solista ripresenta il primo tema, elaborandolo dapprima con foga ossessiva e demoniaca, e trascinandolo in basso là dove bruciano le fiamme degli Inferi. Poi, il registro muta improvvisamente e quella stessa musica che sembrava ardere senza sosta ora riacquista un nitore abbagliante, schizzando su dalle profondità dell’Ade verso salvifiche altezze. Ancora una volta un inebriante senso di vertiginosa ascensione pervade chi ascolta, fino a raggiungere altitudini bachiane con l’armonico sul trillo finale: come una mano che entra nel petto e stringe il cuore fino a farlo scoppiare. Poi sarebbe bello lasciarsi andare nel vuoto. Ma a raccoglierci c’è l’orchestra tutta, leggera e veloce come il vento, compatta come il granito, in una sezione agile e potente come una temporale di agosto. Nel ritorno alle battute iniziali, il violino dilata a cadenza la frase iniziale; poi all’orchestra è affidata la ricapitolazione e la coda che ci porta al secondo movimento. Questo, in Adagio, è collegato al primo grazie ad una nota sostenuta, come nell’omologo Mendelssohniano; ma laddove il Maestro di Amburgo fa tenere la nota al fagotto, Bruch si serve dell’intera sezione dei violini primi. L’Adagio è quasi un’aria per violino a due soggetti, con un’atmosfera di nostalgia lacerante, dal fortissimo impatto emozionale, ma senza alcuna scivolata nel melenso. Una brevissima pausa ci porta al terzo movimento, Allegro energetico. Qui, dopo una introduzione orchestrale, il solista ci guida in una scatenata danza ungherese, tributo al magiaro Joachim. Al tema di danza succede una sezione dedicata all’esibizione virtuosistica del solista, a sua volta seguita da una grande melodia romantica. Allo sviluppo di questo episodio è affidata la creazione del climax artistico, attraverso la ripetizione e la trasposizione del materiale motivico a sempre maggiori livelli di intensità. Il finale, serrato, chiude questo lavoro entusiasmante, superba giunzione tra il concerto di Mendelssohn, da cui è ispirato, e quello di Brahms, posteriore di una decade, in una ideale triade di gemme.

In questa esecuzione troviamo come solista l’ineccepibile Salvatore Accardo. Dal canto mio, abituato a sentire Accardo su un repertorio ispirato a maggiore rigore formale (Bach, Mozart), nutrivo qualche perplessità sulla sua resa in repertorio prettamente romantico, nel timore di una performance fredda e impersonale. Mai pregiudizio fu più errato: Accardo, infatti, investe l’ascoltatore con una gamma variegata di emozioni roventi e di colori vividi, unita alla consueta perfezione tecnica. Impeccabili, altresì, Kurt Masur e la Gewandhausorchester di Lipsia, in una performance all’insegna della compattezza e della duttilità. 
 

Carico i commenti... con calma