È sorprendente scoprire come una voce così dimessa e apparentemente poco dotata, possa aggrapparsi alla tua pelle ed insidiare le tue viscere più di qualsiasi altra big black voice.

Meshell aveva fatto già il botto con l'exploit "Plantation Lullabies" del '93, sponsorizzata niente po po di meno che da Madonna (!). A dir la verità la bassista, e qui il talento è indiscusso, aveva già cercato di farsi strada, non riuscendoci, fra le fila dei grandi Living Color. Grandi meriti allora per il primo album a cui ha fatto seguito l'ancor più sorprendente "Peace Beyond Passion" del 1996 veramente l'apice in chiave soul/jazz (5 pallini anche a lui).

Ma nel 1999, mentre tutti si apprestavano a prepare i grandi botti di fine anno, Meshell fa uscire il suddetto "Bitter", titolo quanto mai strano per un lavoro che di amaro ha ben poco, fatta eccezione per qualche testo da desperate lover.

Tutto l'album è incentrato, questa volta in contrasto con i ritmi più soul funk dei primi due lavori, sull'uso di archi panoramici e cori che si sposano in maniera eccelsa all'andamento rallentatissimo delle ballads. Si perché qui si parla prevalentemente di ballads, suonate ovviamente con i controcosi e cantate a mezza voce da una crooner che ha capito benissimo la lezione di  Joni Mitchell o Kd Lang. Per la serie: non servono le 10 ottave per arrivare .

L'incipit strumentale "Adam" è bellissimo: archi e l'incedere tribale di magiche percussioni. Poco dopo comincia il vero viaggio, lento, avvolgente, notturno (la copertina non per niente  ritrae meshell a letto). Nessuna concessione all'easy listening, una splendida rivisitazione di un brano di Jimi Hendrix "May be this love" (che non conoscevo), una punta di mistery in "Wasted Time" che muore improvvisamente troncata di netto a voler far pensare un errore nell'editing e la pseudo commerciale "Grace" posta in chiusura.

Un disco solido, caldo che ha il sapore del legno e che durerà negli anni senza invecchiare mai.

Per me: Capolavoro

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