LO SGUARDO DEL DIAVOLO.

La soggettiva del mirino di un cine-amatore insegue con curiosità l'ancheggiare d'una prostituta, in un vicolo balordo. Sale con calma le scale che portano in una camera d'appuntamenti. La donna si spoglia, sul letto, e lo zoom della cinepresa pian piano s'avvicina. Fino a distillare, impressa su pellicola e colori accesi, l'espressione sorpresa e subito dopo terrorizzata della ‘protagonista'..

Mark Lewis (un algido, morboso Karl Bohem) vive attraverso l'obbiettivo della sua cinepresa. Il resto non conta, sono inutili note a margine di una vita indifferente. Mark ha un segreto. Anzi, ne conserva alcuni non proprio legati alla tipica immagine da timido e ‘bravo ragazzo' che trasmette. Nel viso biondo e nei gesti educati, silenziosi. Come quel passo leggero e invisibile che lo porta ogni sera a casa, la casa di cui è proprietario e rispettoso inquilino al piano superiore. In parte affittata a persone ignare di un padrone così riservato, e dalle ‘strane' abitudini. Durante il giorno Mark è l'assistente operatore di un piccolo studio cinematografico, e nei ritagli di tempo realizza servizi fotografici osé presso il locale di un'edicola. Mark è ferito, lacerato dai ricordi infantili. Ricordi che custodiscono crudeli il suo passato, e alimentano un presente di segreti inconfessabili. Il padre, un celebre studioso della psiche (impersonato nei filmati amatoriali da Michael Powell), provocò sofferenza e paure mai poi annientate nell'animo fragile del bambino Mark: fin dai primi passi l'occhio della cinepresa paterna indagava e osservava la sua crescita, ne stimolava incubi e insicurezze. Un'innocente cavia da laboratorio, l'oggetto inconsapevole delle attenzioni scientifiche di Lewis senior. Ogni momento del piccolo Mark, ogni suo istante intimo o imbarazzante era una prova analitica sotto la lente del padre A.N. Lewis. Il discreto e mite fotografo\operatore non esce mai privo della sua cinepresa a mano. Si sente indifeso e nudo, senza quell'occhio freddo, chirurgico puntato sul mondo. Un'estensione di sé e dei suoi arti.

A Mark non basta cogliere con la cinepresa stupore o complicità dallo sguardo delle donne che usa filmare, con scrupolo, la notte. No, lui vuole altro: l'oscena rappresentazione della morte in ‘diretta', l'orrore dipinto su quei visi disperati e immobili in una smorfia atroce di dolore. Il nostro ‘Peeping Tom', infatti, riprende le vittime che uccide col sadico gesto di filmarle. Crea nella mente l'inquadratura ideale, aggiunge qualche dettaglio alla ‘scenografia' intorno, e all'estremità del suo cavalletto estrae una lama che penetrerà nelle gole delle povere donne (spesso prostitute, o sconosciute attrici). Una lenta agonia, resa ancora più estrema e violenta dallo specchio fissato sull'obbiettivo della cinepresa; in modo che la vittima sia costretta a guardare letteralmente in faccia il riflesso ‘deforme' del proprio terrore in punto di morte. Insomma, Mark Lewis è un serial-killer con evidenti turbe psichiche freudiane. Che ama, nel buio della camera oscura, sviluppare le proprie perversioni e paranoie del vivere, per esorcizzarle in un'assurda visione quotidiana nel salotto di casa. Dove Mark assiste impassibile e meccanico ai suoi brevi ‘film' di puro e agghiacciante terrore, custoditi nella stanza accanto ai filmati e libri del padre. E a poco servirà l'illusione della tenera amicizia con una giovane vicina, Helen (Anna Massey), in affitto con l'intuitiva madre cieca Mrs. Stephens.

Michael Powell, il grande regista inglese autore (con l'ungherese Emeric Pressburger) di capolavori immortali come ‘Scala al paradiso', ‘Narciso nero' e ‘Scarpette rosse', ci trascina in un'atmosfera di malato voyeurismo nel suo stupefacente cult maledetto: ‘L'occhio che uccide' (ovvero ‘Peeping Tom', definizione british di ‘voyeur'). Un vortice ossessivo e malinconico, dove siamo irrimediabilmente ‘complici' e vittime di una violenza non solo subita, ma perpetrata. Perché, a differenza dello spettatore autorizzato a ‘spiare' gli altri sullo schermo, in ‘Peeping Tom' il concetto dello sguardo distaccato dal contesto viene ripetutamente violentato dal ‘vedere' lo spettacolo spaventoso dei ‘corti' proiettati da Mark Lewis. La cinepresa al pari di un rito orgiastico, un angosciante sostituto fallico che nelle mani del protagonista Karl Boehm (prima conosciuto per ‘La principessa Sissi'..) penetra lo sguardo ‘vergine' di chi ha davanti, e del pubblico.

Uscito in Inghilterra nel '60, ‘L'occhio che uccide' rimase in sala per pochissimo a causa di stolte polemiche sulla presunta ‘immoralità' della pellicola, da parte della critica. E concluse la gloriosa carriera di Powell, probabilmente il Cineasta più importante vissuto in terra d'Albione: nei Settanta, il film sarà oggetto di riscoperta e nuova vita artistica grazie anche a Scorsese (che lo propose in una rassegna a New York), Coppola e Brian De Palma. I quali non hanno mai nascosto l'ammirazione per un tale capolavoro, per il coraggio di tematiche fino allora inesplorate e tabù. Un'opera di lucida, perversa follia avvolta nel rosso sangue della fotografia satura di Otto Heller.

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