Una donna corre sul tapis roulant, tossisce, aumenta la velocità e continua a correre per due minuti buoni. La camera ne inquadra solo la bocca, il collo, le spalle.

L’uscita di una scuola, il flusso di ragazzi che escono, la scuola che mano a mano si svuota e rimane solo un ragazzo seduto su una panchina.

Il bancone di un negozio, una sigaretta poggiata su un posacenere, un bicchiere di caffè, un uomo di cui non si inquadra la faccia che apre un giornale, indugia su una pubblicità con una ragazza in intimo, poi lo sfoglia e si sofferma sulle pagine degli annunci. Arriva una cliente, compra delle sigarette, lui cerca il resto alla banconota da cinquanta che lei gli ha allungato, poi bofonchia mentre la guarda andare via; arriva un ragazzo con una fornitura di brioches, una chiamata della moglie…

Se vi sembra una descrizione lenta e noiosa, probabilmente troverete lenti e noiosi anche i primi dieci minuti, ma diciamo anche la prima ora di Luton, film del 2013 di Michalis Konstantatos. Questo è infatti uno di quei film che inizi a guardare, continui a guardare perché le scene, fra loro sconnesse, lente, dettagliate, vuoi o non vuoi catturano la tua attenzione e stimolano la tua curiosità e ti ritrovi a constatare che è passata più di mezz’ora e ancora non hai idea di quale sia la trama del film. Questo mi è successo mentre lo guardavo e questo è quello che mi fa dire: ‘'Bene, questo è un film che mi piace’'. A volte mi capita qualcosa di simile con il cibo, se sto mangiando qualcosa che non ha alcun sapore: mi ostino a mangiare tutto, a continuare a mangiare perché voglio afferrare quel sapore, o anche perché sono convinta che quella cosa in fondo mi piaccia. In questo caso, non è solo la curiosità di scoprire la vera essenza del film che mi porta a proseguire la visione ma proprio il piacere insito in quelle scene‘' che non sanno di niente’'. Non è una novità, d’altronde, per il mio amato cinema greco contemporaneo: Luton si aggiunge a una breve ma significativa lista di film greci degli ultimi anni che ho visto, in cui è impossibile non scorgere un leitmotiv che li unisce l’uno all’altro: fra gli elementi che li caratterizzano tutti c’è proprio questa narrazione distaccata, spoglia, un brutalismo cinematografico che si rispecchia nella scenografia. Nell’asetticità delle inquadrature c’è però anche un nervosismo, una concentrazione quasi ossessiva sui dettagli, come il bacio fra i due adolescenti, a cui l’obiettivo si avvicina sempre di più, registrando nel dettaglio le labbra che si mordono, si scontrano, si avvinghiano l’una all’altra, il rumore dei denti, quello della saliva. Non c’è traccia di romanticismo ma nemmeno è un occhio ironico o distaccato quello del regista, sembra quasi una ripresa sporca da film di pessima qualità, un realismo non documentaristico, ed è consapevole. Di cosa, non lo so. E’ in linea con la cifra stilistica del film, ma mi chiedo cosa voglia comunicare: nulla. Tutto.

Luton lascia tutto allo spettatore. Nel suo silenzio narrativo sta la sua consapevolezza e la bravura di chi lo ha scritto e diretto. Banalmente, la sua trama potrebbe sintetizzarsi nel dire che le vite di tre persone apparentemente scollegate tra loro sono intrecciate, di nascosto dagli occhi degli altri e in maniera sorprendente. Luton è un film profondo, che mostra quello che c’è oltre la superficie in modo volutamente freddo e asettico. Ciò che è freddo e asettico non è solo il modo di narrazione ma anche il modo in cui il mondo dei suoi personaggi e la società vengono rappresentate. Ma in quello stesso modo scostiamo il velo e vediamo quello che c’è sotto, come una ferita nascosta e svelata con un misto di disprezzo e menefreghismo, di sadica gioia nel vedere lo stupore di chi non riusciva a immaginarne l’esistenza solo perché non la vedeva. I sentimenti sono così forti e profondi che sono ammantati, coperti, sepolti ed esplodono con tutta la loro rabbia, ma in silenzio. I suoni, dei macchinari della palestra, delle lingue, dei denti che baciano, che succhiano la minestra, delle posate che sbattono, e mille altri suoni ambientali, esprimono la dicotomia fra rumore e silenzio, fra quello che è importante e quello che apparentemente non lo è, ma che viene invece sottolineato e rimarcato fino al fastidio, tangibile, che provi nel sentire per due minuti lo stesso ticchettio, lo steso martellio, rumore infinitesimale che ti si infila nell’orecchio come un moscerino che non puoi scacciare via, mentre le parole non vengono urlate mai, a malapena dette. Così un bacio è superfluo solo perché sostituito a mille altre parole, ma un bacio è rabbia e odio verso chi pretende che quelle parole per essere capite debbano essere dette, e gioia folle e sconsiderata nel non dirle e succhiarle via rumorosamente, per farsi sentire.

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