[Contiene anticipazioni]

Il rapporto col romanzesco non è mai stato banale e prevedibile nella carriera di Mari. I suoi libri non hanno mai preso la strada facile del romanzo classicamente inteso: pagine e pagine di prosa indistinta, attenta principalmente a propinarci trame accattivanti. Anzi, semmai si può dire il contrario: la scrittura di Mari è prima di tutto controllo stilistico, ricamo letterario colto e inebriante: dopo vengono le storie, i contenuti. Tant'è vero che la maggior parte dei suoi libri, in fondo, parla principalmente del suo autore. La sua figura si declina in una varietà di profili, esaltati e impreziositi dai differenti stili e filigrane letterarie che caratterizzano le varie opere.

La gran parte della produzione di Mari si incentra quindi sull'esplorazione della sua personalità, del suo enorme bagaglio culturale, sulla riformulazione letteraria della sua vita. Basti pensare a Tu, sanguinosa infanzia, Euridice aveva un cane, oppure Rondini sul filo: la materia grezza di queste opere arriva direttamente dalla vita dell'autore, opportunamente filtrata e rielaborata secondo codici sempre diversi. L'intreccio di contenuti esistenziali e maschere letterarie è quindi uno dei valori primi della scrittura di Mari, un filo rosso che ci accompagna per lunghi tratti del suo percorso di scrittore.

Quando invece la materia dello scrivere si discosta dalle vicende biografiche, la portata iper-letteraria della prosa si accentua, diventando in fondo il valore supremo e il messaggio ultimo del suo raccontare: La stiva e l'abisso, in questo senso, tentava una riformulazione della narrativa piratesca, incarnata però in una prospettiva magica, pertinente per lunghi tratti all'universo del fantastico: oppure, un romanzo epistolare come Io venia pien d'angoscia a rimirarti si nutriva principalmente di erudizione, di sondaggio profondo della vita e delle letture del Leopardi, amplificato poi a dismisura dalla scelta di scrivere in un italiano arcaizzante, quello utilizzato appunto dalla famiglia Leopardi. Quando non era la letteratura, lo scheletro di un libro poteva essere la storia della musica, come in Rosso Floyd, ma c'era sempre un riferimento esterno fisso a cui aggrapparsi per dare sfogo alla vena letteraria impetuosa dell'autore. Si potrebbe anche pensare che Mari, dedicando gran parte delle sue energie ad una scrittura stilisticamente sontuosa e complessa, optasse per strutture più facilmente gestibili e malleabili. E cosa c'è di più malleabile del racconto della propria vita, da un lato, oppure della rielaborazione di pagine di letteratura lette e rilette in tanti anni di lavoro accademico?

Un primo cambiamento inizia a palesarsi con Verderame, in cui biografia e letteratura (ma anche storia, cultura pop, televisione) si intrecciavano per servire una trama finalmente romanzesca nel senso più autentico del termine. Anche Rondini sul filo univa le due cose, ma senza riuscire a rendersi fruibile per un pubblico non selezionatissimo. Non che questo fosse un problema, il pubblico di Mari resta assai circoscritto, ma l'apertura verso un discorso capace anche di intrattenere un lettore qualsiasi esaltava ancora di più la qualità squisita della scrittura, soddisfacendo sia il gusto intellettuale del leggere Mari sia quello più banale ma ugualmente legittimo dello “scoprire come va a finire”.

Ora, l'ultimo romanzo dello scrittore milanese, uscito nel 2014, si intitola Roderick Duddle e vede campeggiare in copertina un dickensiano ragazzino che corre. Ad un primo impatto ho storto il naso: Mari si concede al puro romanzo di formazione ottocentesco? Mari cede alla moda dell'anglofilia con addirittura un nome inglese per titolo? Ovviamente mi meriterei una punizione esemplare per aver dubitato.

Roderick Duddle è in fin dei conti il frutto maturo e onnicomprensivo della scrittura di Mari: è a tutti gli effetti un romanzo d'intreccio che unisce il percorso formativo del protagonista a un complesso conflitto per un'eredità che fa quindi scatenare l'intrigo noir, costellato di omicidi e inseguimenti, prigionie, fughe, imbrogli, alleanze e tradimenti, rivincite. E poi ancora, osterie, porti, una schiera sterminata di personaggi, gli aiutanti e i nemici, gli assassini spietati e i benefattori, e via dicendo.

Il focalizzarsi su un intreccio complesso non fa ovviamente venir meno la qualità squisita del dettato, che pur semplificandosi (ma questa tendenza progressiva è in atto da tempo nello scrittore) rispetto a romanzi monstre come La stiva e l'abisso, mantiene le sue prerogative di bellezza e cura maniacale, di richiamo costante al patrimonio letterario mondiale e di ogni tempo, ad una costante filigrana letteraria che trasforma il narrare puro e semplice di un romanziere qualsiasi in un processo di riscrittura dell'universo culturale sterminato che Mari deve avere nella sua mente. I rimandi ad altre opere, o in generale richiami culturali di ogni tipo, non sono più così fitti come in passato (Rondini sul filo fa paura per la mole di riferimenti), ma mantengono la loro funzione di ponteggio ineludibile su cui si struttura la narrazione. I rimandi possono essere espliciti, nel senso che il narratore cita o fa citare opere/autori («Non son chi fui: perì di me gran parte», continuò suor Allison citando a vanvera e in assoluta malafede. p. 478) o più sottilmente riguardano la struttura stessa del libro, la conformazione dei personaggi e le dinamiche diegetiche. In questo romanzo è impossibile non evidenziale la dimensione dickensiana del protagonista, la carica ferale in stile Innominato del Probo, uno dei personaggi più tremendi. Mari cita anche se stesso, quando verso metà libro fa partire Roderick su una nave commerciale, la Rebecca, per fuggire alla schiera di oppressori che lo minacciano: riproposizione in miniatura delle vicende di La stiva e l'abisso. La qualità letteraria dei singoli momenti è poi costantemente sorvegliata: ogni passaggio ha una sua dimensione estetica ineludibile, proviamo sempre e comunque piacere nell'immaginare le scene di questa storia, tanto sono figurativamente calibrate.

Tutto aderisce perfettamente ai topoi del buongusto letterario: le locande non possono che essere tutte sordide, la Badessa ovviamente calcolatrice spietata, il marinaio solitario Jack buono e generoso, il protagonista solo e vessato, i legali Peabody e Moriarty furbi e truffaldini, l'investigatore Havelock mente brillante ma fragile, il locandiere Jones ignorante e lussurioso. La paradigmaticità dei personaggi è assoluta, ma questo non comporta un appiattimento delle figure, che anzi sono poi approfondite con interessanti levigature caratteriali: Mari costruisce un microcosmo standard per questo tipo di ambientazione e di storia, ma lo rende vividissimo con il suo acume oserei dire poetico, con la sua maniacale precisione e coerenza nel descrivere ogni cosa, e soprattutto instillando con sottile sagacia delle caratteristiche dissonanti in queste figure classicissime. Gli esempi potrebbero essere infiniti; sarebbe stato troppo facile far seguire al Probo lo stesso percorso esistenziale del manzoniano Innominato, Mari non casca nel tranello e ce lo mostra pietoso nei confronti di Jack, che lo aiuta, ma senza che questo comporti un riscatto morale ed un passaggio alla parte del “bene”. Il grezzo Jeremiah Jones, che per tutto il libro sguazza nella meschinità, si rende protagonista anche di azioni meno scellerate, quando permette al vero Roderick di ottenere metà dell'eredità (certo, lo fa anche per interesse) e comunque si dimostra meno arido di quanto si pensasse nel momento in cui si innamora perdutamente dell'ermafrodita suor Allison.

Roderick è ovviamente il personaggio in cui l'autore si riconosce: ce lo dice con divertenti artifici metanarrativi a pp. 7-9 e 479-480. Questo protagonista appare molto sveglio e in gamba: il suo percorso di formazione non è in realtà così accidentato (bisognava dare spazio a tutti i filoni), visto che fin dalle prime pagine egli si dimostra assai sveglio e scaltro, pur incappando inevitabilmente in diversi errori dati dall'ingenuità e dall'inesperienza. La figura di Mari domina titanicamente ogni suo libro; questo, in cui per la prima volta siamo proiettati in un mondo esterno al suo micro/macro-cosmo solipsistico, non poteva tradire la regola e quindi tutte le avventure e le trovate brillanti del ragazzino si proiettano automaticamente sull'autore: egli è un bimbo ingenuo fino a un certo punto, è profondamente intelligente, come il Michelino di Verderame. Il cognome Duddle se lo guadagna con le sue azioni, è la riprova della sua ottenuta dignità e indipendenza.

Una questione poi davvero interessante è come ci viene presentato il mondo “esterno”, così sfuggente e distante nel resto della produzione dell'autore. Chiaramente dall'alto della sua torre d'avorio Mari non può che disprezzare un po' tutti, come si vede bene il Rondini sul filo, ma in questo romanzo, in cui la malvagità domina largamente, l'autore non può che venire a patti col mondo, raggiungere un compromesso. Come anticipato sopra, anche personaggi biechi hanno dei risvolti positivi. In generale, prevale una senso d'inevitabile accettazione della pochezza delle persone. Si sopportano le brutture del mondo perché in questo caso è proprio di quel mondo che si vuole parlare: l'autore ha già viaggiato in lungo e in largo nei meandri della letteratura e della sua mente, ora vuole cercare di raccontarci un po' come girano le cose fuori. Fedele alla sua costante tendenza all'approfondimento assoluto, ci presenta una gerarchia di personaggi straordinaria e complessissima, in questo senso agli antipodi del sistema valoriale di un Manzoni (e si vede nelle differenza tra il Probo e l'Innominato, tra suor Allison e la monaca di Monza, ecc). Non si dà un giudizio definitivo alle persone: o meglio, il giudizio è insito nelle loro azioni, ma i moventi sono i più disparati. C'è il desiderio di ricchezza che muove molti personaggi, da Jones alla Badessa, da Moriarty a Peabody; ma anche in questo insieme di profili, le declinazioni dell'animo sono le più diverse. Se Salamoia o Miller godono nel compiere il male, la Badessa è accecata dalla sua fede, ritenendosi sempre dalla parte del giusto, nonostante le numerose frodi; il Probo compie le peggiori efferatezze per sfuggire al male che lo perseguita, La Fayette è un damerino egoista, ma capace di innamorarsi, così come Jones, seppur d'un amore morboso e degenerato.

La grande modernità di questa piramide di malvagità è anche data dagli esiti delle vicende: la sorte dei vari personaggi non è minimamente legata alla loro condotta di vita. I peggiori assassini continuano a vivere, mentre alcuni dei migliori benefattori trovano la morte. C'è spazio sia per il bene che per il male: Roderick e Michael vivranno come fratelli a Pemberton House, ma Jones e la Badessa avranno la loro bella fetta del malloppo. Lennie viene prosciolto, pur avendo ucciso; Mari si concede un po' di bontà. La Fayette invece subirà una delle sorti peggiori, sodomizzato in carcere senza aver compiuto nessun reato. Insomma, il bene e il male non si spartiscono le sorti del mondo secondo logiche corrette, non c'è un karma che punisce chi se lo merita. Il mondo è profondamente aggrovigliato, inestricabilmente fuso con l'ingiustizia e la falsificazione. Basti pensare che lo stesso Havelock, tutore della legge, ad un certo punto si renderà complice di un occultamento di prove. Siamo molto vicini allo «gnommero» di gaddiana memoria. Il mondo è troppo complesso per essere interpretato nel profondo e giudicato: il giudice Bonahm, nel finale, non saprà dire quale dei due bambini è il vero erede, le vicende si sono troppo ingarbugliate per essere capite davvero.

Insomma, la visione del mondo da parte dell'introspettivo Mari non cede al minimo schematismo o manicheismo: in una realtà morale un personaggio mostruoso come suor Allison non potrebbe mai ottenere la tutela legale dei due bambini. La perversione del suo animo è talmente radicale che, in un ribaltamento assurdo ma ben argomentato, in fondo è lei il vero personaggio di punta di tutta la vicenda: il suo percorso di depravazione e immoralità è talmente assoluto da essere interpretato come uno status di superiorità rispetto alle fallaci vicende del mondo. Come la natura le ha dato una forma sessuale superiore, così il suo animo è bramoso di avvenimenti, di lusinghe, di rivincite, di trionfi su tutti e tutto. Suor Allison è il male incarnato, ma al contempo è il profilo più affascinante e alto, nel senso meno moraleggiante possibile. Allison ha padronanza del reale, come parallelamente ha padronanza culturale e letteraria. Personaggio infallibile, si trova sconfitta solo da Roderick nello scantinato del convento di St Mary. Come dicevo, Mari sa anche essere generoso coi suoi personaggi.

Per quanto riguarda la struttura della narrazione, essa è saggiamente divisa in capitoletti brevissimi tipo feuilleton, di due o tre pagine, in cui veniamo rimbalzati da un filone all'altro della vicenda. Difficilmente due capitoli contigui riguardano lo stesso personaggio: questo rende la diegesi agilissima ma al contempo assai strettamente intrecciata. I percorsi procedono parallelamente e con lo stesso ritmo: grazie a questa suddivisione capillare, la scrittura non rischia di incorrere in deformazioni o squilibri strutturali. Le fila del discorso procedono con regolarità implacabile: ogni sotto-trama è approfondita perfettamente, non c'è un dettaglio che sfugga alla penna dell'irreprensibile narratore.

Il narratore costruisce il tessuto diegetico con modalità estrinseche: sono numerosissimi infatti i passaggi in cui egli si rivolge direttamente al lettore, apostrofandolo con aggettivi sempre diversi, per spiegargli ad esempio i motivi della sua reticenza, o al contrario del suo espressionismo, o ancora per informarlo che intende sorvolare su un certo passaggio perché noioso e retorico. Insomma, l'ordito narrativo si costruisce sotto gli occhi del lettore, che viene portato a comprendere le scollature che inevitabilmente si formano tra i fatti e la narrazione degli stessi, tra fabula e intreccio.

Esempio massimo di questa posizione critica ed esplicita nei confronti della selezione dei materiali da parte del narratore è la decisione finale di chiudere la storia. Essa è infatti la scelta più radicale che può essere compiuta nella costruzione di una trama: coerentemente al concetto di gnommero della realtà, una narrazione deve necessariamente concludersi ma la realtà non ha mai una vera conclusione.

«Mio paziente e tollerante lettore, che mi hai seguito passo passo fin qui: immagino che sarai stanco, e desideroso di sapere come questa storia va a finire. Cercherò di accontentarti, anche se nessuna storia propriamente finisce mai: se ne conclude un segmento, ma questa apparente cesura è solo una parte di una storia più ampia, che solo per convenzione (o se preferisci, per non impazzire) abbiamo limitato ai casi occorsi a certi personaggi in un limitato lasso di tempo» (p. 464).

La qualità strabiliante di Roderick Duddle è proprio la capacità di essere profondamente romanzesco e al contempo meta-letterario, classicissimo nei temi e nei moduli ma anche implacabilmente originale e moderno. Un romanzo che unisce tutte le qualità della scrittura di Mari ma le proietta in una dimensione nuova di maggior fruibilità, ma anche di maggior riscontro dei dati concreti della vita. Michele Mari è sceso definitivamente dal suo castello arroccato nella più alta letteratura, ha deciso di sporcarsi le mani con le vicende tragiche e comiche delle persone comuni. Il suo sguardo indagatore però non ha smesso di sondare con grande acume le meccaniche degli animi umani e dei rapporti/conflitti sociali. Il suo potenziale, prima indirizzato verso la costituzione di un microcosmo alternativo, personale-letterario, si apre ora al mondo. Il risultato è qualcosa di immane, impossibile da rendere qui in poche pagine. Bisogna esperirlo per capirne la vastità.

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