Il progetto "The Blues" nasce da una felice intuizione di Sua Eminenza Grigia Martin Scorsese. È un sincero e appassionato tributo alle radici della musica moderna, un lavoro schietto, senza pretese pedagogiche, fatto da appassionati (esperti, nel caso di Eastwood) per gli appassionati. "Rosso bianco e blues", in Italia approdato all'home video senza passare per le sale, è il capitolo del progetto che si occupa di descrivere la nascita e lo sviluppo del blues-revival britannico, ed è una palese dimostrazione di come un regista possa buttare un'idea geniale nel cesso.

Mike Figgis stana, raduna ed intervista un folto gruppo di grandi nomi del blues rock inglese degli anni 60, cercando di indagare su quali siano gli esatti meccanismi che hanno portato alla diffusione del blues oltreoceano, con il piglio e la verve di un brigadiere dei carabinieri che vorrebbe essere un colonnello. Il regista ha a sua completa disposizione -più ci penso e più m'incazzo- le chitarre, le voci e le testimonianze di Van Morrison, Jeff Beck, Eric Clapton, B.B. King, Davy Graham, John Mayall, Bert Jansch, Eric Burdon, Stevie Winwood e Peter Green (prima che sparisse un'altra volta dalla circolazione: deve un sacco di soldi alla sua band, si è dato alla macchia qualche mese fa e pare sia tuttora disperso).  E il buon Mike, non contento, chi ti va a scegliere come voce solista per suonare gli standard in studio? Ma Tom Jones naturalmente, chi meglio di lui saprebbe trasmettere e comunicare il vero significato del Blues. Il tapino ahilui fa quello che può: se ne sta seduto in disparte quando canta Morrison, con l'aria nervosa e imbarazzata di chi sa di essere inutile; improvvisa una serie di goffi duetti con Beck, in un'atmosfera di tensione e disagio, con l'esasperato chitarrista che a un certo punto è costretto a dirgli di stare calmo e lasciarlo suonare (non sorprende che la scena non sia stata tagliata, sorprende che qualcuno abbia permesso a Figgis di girare questo film).

L'ignaro spettatore, prima in trepidante attesa di ascoltare le perle di saggezza dei più importanti musicisti rock del ventesimo secolo, dopo venti minuti è già straziato nell'impotente attesa che qualcuno dica o faccia qualcosa. E invece, il nulla: Mayall cerca sguardi d'intesa con il tecnico del suono, entrambi tediati dallo spento e inadeguato intervistatore; la domanda più interessante posta a Peter Green è "qual è stata la tua prima chitarra?"; Clapton è lasciato sguazzare soddisfatto e imbelle nelle sue chiacchiere; Winwood è un po' più a suo agio, perchè più egocentrico e propenso a parlare di sè; Morrison (Deo gratias) prende la situazione in mano quando si tratta di suonare, ma risponde distrattamente a domande prive di sentimento; Davy Graham(!) è lasciato in disparte; e così via. Mentre la pellicola si trascina sui gomiti per ore, si ha sempre più netta l'impressione che tutto il cast si stia chiedendo cosa diavolo è stato chiamato a fare.

A confronto col genuino entusiasmo di Scorsese ("Dal Mali al Mississippi"), la passione di Wenders ("L'anima di un uomo") e la saggezza di Eastwood ("Piano Blues"), questo film fatica a trovare un senso. Il regista (e lo spettatore) ha avuto un'occasione unica e l'ha sprecata. Amaro da digerire.

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