I Modern English rappresentano un caso davvero particolare nella storia del dark-punk britannico. Venuti alla luce come " The Lepers " nel 1977, suonavano un punk molto tirato, emuli dei Sex Pistols e dei Ramones. Trasferitisi a Londra, cambiarono nome e sound ma furono costretti ugualmente a vivere di stenti data l' indifferenza della case discografiche. Quando sembravano definitivamente sul punto di sciogliersi arrivò la chiamata di Ivo Watts-Russell, lungimirante proprietario della 4AD. Il gruppò trovò così qualcuno che credeva in loro e potè lanciarsi nel calderone del dark-punk.
Il loro suono era diventato molto più ragionato rispetto agli esordi. La foga era quella del punk, ma gli arrangiamenti stranianti, l' uso atmosferico delle tastiere, il cantato impersonale, li facevano avvicinare ad un certo post-punk cerebrale ( Wire, primi Ultravox ) venato però da un gusto tetro e ossessivo per le atmosfere shockanti. Insomma, un mix riuscito, che portò dopo una serie di singoli al loro esordio su LP.
Mesh And Lace per quanto meno famoso di altri suoi più illustri coetanei, rappresenta uno dei lavori più inquietanti del genere, attraversato costantemente da un filo sottile di tensione nervosa prossima al collasso.
Si ascolti ad esempio uno dei brani manifesto dell' album: " Swans On Glass ". Una batteria nevrotica duetta con un synth beffardo, la voce di Robbie Grey si intromette assolutamente priva di emozione, mentre il ritmo sale ed apre la strada alla chitarra alienata di Gary McDowell. Il canto quasi non esiste, sostituito da una recitazione brechtiana assolutamente impassibile. Ad un certo punto l' atmosfera si traveste da incubo freudiano, con tintinnii e scamapanii che provengono dappertutto, creando un effetto davvero stordente. Un gioiello.
" Gattering Dust " è un altro snervante viaggio nella psiche malata di Grey, più pacata ma altrettanto ipnotica, con un giro circolare di basso e una chitara carica di flanger. Di tanto in tanto spari di navi aliene provengono da un synth malefico. Su tutto aleggia un alone cupo e opprimente, figlio dei deliri metropolitani dei grandi maestri Wire. " 16 Days " non concede tregua col suo iniziale ronzio che pare provenire da chissà quale profondità...un rombo motoristico di basso introduce il balletto martellante della batteria, questa volta di chiara matrice dark-punk. Siamo infatti nel territorio di Joy Division e Bauhaus, minato da un maggior ricorso all' effetto elettronico.
Il canto sereno degli uccellini che aprono " Tranquillity " è un beffardo preludio alle plettrate cristalline di chiarra acustica, che irrompono funeree accompagnate da un sottofondo di cori per malati di mente. L' isolamento è ormai definitivo, siamo negli spazi più angoscianti della psiche umana, un crescendo di pazzia che non ha limiti, un morboso delirio di solitudine. Il grigiore dei Wire ritorna nell' ovale figura di basso che caratterizza " Move In Light ", e nell' incedere timoroso di " Grief ", tra folate chitarristiche da tragedia imminente e gommose bass-line. Per non parlare dei piatti anemici che danno il tempo alle preghiere di Grey in " The Token Men ", un pezzo che parte in sordina per poi deflagrare in un tornado di tribalismi da cerimoniale occulto, su note tristissime di chitarra scintillante.
L' andamento dei loro brani conserva una dote d' imprevedibilità che li rende unici, insieme ad un uso sapiente dei vari stilemi, mescolati insieme come nessuno aveva fatto prima in ambito dark-punk.
Detto questo non rimane che togliersi il cappello davanti ad un gruppo che in seguito purtroppo orienterà i propri interessi verso uno scialbo synth-pop radiofonico, ma che fece in tempo a consegnare alla storia un capolavoro imprescindibile, occultato da tanto fumo negli occhi da parte di chi aveva interesse a vendere e non ad essere. A distanza di anni riscoprirlo è un atto dovuto.
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