L'estrema soggezione che provo nell'atto di profanare l'opera in questione mi spinge a tergiversare più che posso. Inizierò quindi a parlare un po' di me a partire dalle stelle (suscitando l'ilarità generale, alla quale mi accodo volentieri), dal momento che la descrizione del mio tema astrale coincide parecchio con molti tratti del mio carattere.
Le stelle mi dicono che sono nato in Vergine, con ascendente Vergine; anche Mercurio è in Vergine, mentre la Luna è in Scorpione.
Sono una persona concreta, coi piedi per terra. Fin troppo. La mania dell'ordine e della pulizia, il mio odioso perfezionismo e l'eccessiva attitudine alla (auto)critica si rivelano spesso disfunzionali, rendendomi la vita un filino complicata: l'ipertrofia mentale non fa bene, insicurezza e nervosismo sono sempre dietro l'angolo. Perciò pianifico con minuzia ogni cosa, persino le mie escursioni al cesso; e prima di prendere una decisione, anche banale, mi arrovello passando al vaglio tutte le opzioni possibili, anche se so già in partenza che niente sarà come lo voglio io.
La mia personalità lascia trasparire, almeno a primo acchito, dei modi di fare apparentemente snob e scostanti, ma se ingrano divento affabile e pacato, senza mai smussare gli spigoli del mio sarcasmo. Chi mi conosce bene mi ritiene inoltre un ottimo confidente, dato che non mi piace limitarmi a fare ordine solo tra gli oggetti di casa.
Più di una volta, tuttavia, qualcuno mi ha detto: "ti voglio bene e tutto il resto, ma dai la vaga impressione di essere infastidito, forse assorto, come se volessi startene altrove".

Questo non tanto perché sia perso in chissà quale mondo fatato, quanto piuttosto a causa del mio bisogno impellente di controllo, su di me così come sugli altri. È un difetto che sto imparando a gestire col tempo e con gli errori, ma la mia intransigenza può essere spietata a livelli incomprensibili pure a me. E a peggiorare le cose si aggiunge una spiccata sensibilità sotterranea che mi predispone a intuire in fretta le debolezze delle persone che mi stanno intorno, in modo che possa manipolarle, forse usarle contro di loro non appena percepisco che stanno sfuggendo al mio egocentrismo. E così la lista dei ponti bruciati si allunga ad libitum, senza particolari rimorsi.
Non so quanto possa essere accurata la citazione di cui sopra, ma di sicuro ha centrato un aspetto importantissimo: a prescindere dall'estroversione, non riesco ad essere adeguatamente e sincronicamente emotivo.

È nella musica (ma anche nei libri, nei film) che cerco ciò che nella vita di tutti i giorni non riesco a concedermi: la musica che mi commuove, che mi gasa, che mi spaventa, mi distrugge, mi perplime, mi violenta, mi accarezza, mi rallegra; cerco davvero di tutto, almeno qui non piazzo quei fottuti paletti! Anche se, inutile dirlo, per il gelo resta un fascino quasi esclusivo. Credo di aver ascoltato un numero imprecisato di dischi, di artisti che fanno musica definibile gelida: nel rock come nel metal, e poi industrial, IDM, ambient... tutte le sfumature possibili di freddezza; ma sempre associate a qualche emozione puramente vicaria. Uno sforzo congiunto in primis dell'artista, e in secondo luogo dell'ascoltatore, per suscitare o ricreare sensazioni. La musica sarà anche nata per questo fin dagli albori dell'umanità (a pensarci bene, le percussioni primordiali magari riecheggiavano i battiti del nostro cuore!), e oggi più che mai resta l'espressione artistica più diffusa e abusata per scuotere gli animi, darci l'illusione di scavare dentro di noi, in un mondo dove il narcisismo delle emozioni spadroneggia.
Eppure mi chiedo: è possibile scavare a fondo tramite la musica, abiurando il dogma dell'emotività?

Pur nella mia incompetenza in materia di classica moderna, credo di aver trovato una risposta nel repertorio quantomai ostico del new yorkese Morton Feldman. In particolare Triadic Memories, composto nel suo ultimo periodo (1981) e dedicato alla portentosa pianista Aki Takahashi, resta un ottimo punto di partenza, nonché uno dei migliori esempi della sua personale concezione di serialismo: un linguaggio privo di forma e simmetria, del tutto asservito all'inconsistenza della memoria.
La durata del brano, solo per pianoforte, varia significativamente a seconda delle interpretazioni: il tempo non è specificato nella partitura, e quindi va a discrezione dell'esecutore. La versione di Marilyn Nonken (93 minuti) ad esempio è molto apprezzata, ma quella della Takahashi, per quanto veloce (60 minuti), mi sembra che assecondi meglio il desiderio di Feldman di privare il pianoforte del suo attacco, rendendolo uno strumento di pura risonanza. Cosa che sarebbe in ogni caso impossibile, ma il tocco delicato e asettico della pianista, con l'aiuto del pedale di risonanza e soprattutto di una devozione ritualistica, ci cala lentamente in questo oceano buio, piatto, fantasmatico, fatto di accordi che si susseguono senza seguire alcuno schema, violando così la percezione del tempo. Takahashi esercita un controllo quasi medianico sull'assenza di pattern (Why Patterns?, infatti). E non c'è da meravigliarsi se gran parte delle opere di Feldman raggiunge minutaggi inaccessibili; pensiamo al monumento String Quartet no.2 e alle sue indecifrabili sei ore: la sensazione è sempre quella di trovarsi al cospetto di un tappeto grande quanto il sistema solare, i cui motivi irregolari possono essere carpiti solo in minuscola parte. Insomma durano tanto, tantissimo, troppo, e mai abbastanza.

Dettagli tecnici a parte (non sono né un saggista né un esperto musicista, veniamoci incontro), l'aspetto più straordinario di ciò resta, manco a dirlo, dentro di me. I silenzi, le pause tra un accordo e l'altro; la sciarada di note sospese nel nulla; le ripetizioni indefinite; il passaggio arbitrario tra una melodia e l'altra; la scongiura di qualsivoglia sentimento: questo brano fa qualcosa di stranissimo al mio cervello. Potrei definirlo inquietante, terrificante, ma paradossalmente (è davvero complicato da spiegare, perdonatemi l'astrusità) non ha a che vedere con l'aspetto musicale in sé e per sé. E nemmeno lo associo alle situazioni in cui mi è capitato di ascoltarlo (tutti noi ci emozioniamo con qualche disco perché lo abbiamo ascoltato in passato, magari in un momento particolare o saliente della nostra vita).
Ascoltare Triadic Memories, per me, è come alzare lo sguardo al cielo notturno, e scrutare una volta celeste priva di stelle che mi dicano chi sono o chi potrei essere. E tutto si risolve nella triade mnesica del titolo. Io, il mio passato rigurgitato dall'inconscio, e il lavoro imperscrutabile della musica: l'enorme specchio opaco in cui cerco di riconoscere il mio riflesso.

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