Sì, anche i Nickelback sanno in qualche modo sorprendere. Ricordiamo benissimo quando dichiararono di voler realizzare un disco metal, tant’è che speravamo davvero nel lavoro pesantissimo; e sarebbero assolutamente capaci di farlo, non solo il loro moderno hard rock ha già di suo un suono lievemente tendente al metal ma in diverse occasioni hanno tirato fuori brani con riff pesantissimi che non si possono non collegare al metal.

E invece no, o perlomeno non ora, il bistrattatissimo quartetto canadese si rimangia tutto e prende addirittura la strada opposta. “Get Rollin’” è un album pop-rock o soft-rock, bisogna metterlo in chiaro fin da subito per evitare di generare false aspettative. La cosa non sorprende più di tanto, è dal 2005 che sappiamo che i Nickelback sono anche una band pop-rock, a partire da quella data i loro album non sono più stati soltanto un concentrato di energia ma offrivano anche diverse vetrine ad una chitarrina leggera e radiofonica; e il discorso non era limitato a due tracce scarse, al contrario riguardava quasi metà album, ben 5 tracce su 11 erano soft. La band poi aveva già giocato la carta del disco più marcatamente pop con “No Fixed Address” nel 2014, il disco esplicitamente più criticato del gruppo. E allora dove sta la presunta sorpresa di cui parlo all’inizio? Chiaramente non nella scelta di realizzare il disco soft bensì nel farlo dopo aver alluso a tutt’altro.

Piaccia o no “Get Rollin’” vuole approfondire e sviscerare al meglio l’anima pop-rock dei Nickelback. Ai cuori più dannatamente hard rock si è fatto giusto un piccolo pensierino, qualche piccola concessione, i brani duri nel loro tipico stile sono solo 3 e bisogna farseli bastare, chi non apprezzerà il resto dell’album potrà comunque godere dell’energia di “San Quentin”, del groove massiccio di “Vegas Bomb” e del riuscitissimo hard blues di “Skinny Little Missy”. Chi invece ama i Nickelback anche per l’altro lato non avrà assolutamente problemi a familiarizzare con quest’album; anche perché puntare sul lato più leggero non è in alcun modo sinonimo di moscezza, anzi, al contrario è dotato di un’energia positiva più o meno tangibile, già intuibile dalla vivace copertina, un van da trasferta immerso fra palme, sabbia, sole e nuvole in un bagliore giallo/arancione molto sgargiante. Si respira davvero un’atmosfera estiva, da spiaggia, da moto e capelli al vento, da bikini sul lungomare californiano, tutto però comunque un po’ velato da un sottile strato malinconico. In tutto questo l’impalcatura sonora generale rimane fondamentalmente rock’n’roll; l’impronta più soft fa subito scattare il paragone con “No Fixed Address” ma è un paragone che non regge più di tanto, nel disco del 2014 si tentava un atteggiamento pop inserendo elementi funk, disco, elettropop, rap, qui questo non succede. Inoltre si rileva un minimo ed impercettibile tentativo di raffinare gli arrangiamenti, facendoli sembrare leggermente meno piatti, difetto parzialmente riscontrabile nei brani soft del gruppo, difetto non proprio risolto ma perlomeno levigato.

Che siano ballad o meno i brani mantengono la giusta dose di brillantezza, una su tutte “High Time”, estiva e californiana fino al midollo, è proprio la sintesi e l’apice di tutto; fra le ballad invece spicca “Does Heaven Even Know You’re Missing?”, riesce proprio a portare quel tipo di atmosfera calda in un brano lento, ci riesce anche “Horizon” ma con un po’ meno vigore. Stupisce poi l’inconsueto downtempo di “Steel Still Rusts”, anch’essa fra gli episodi più “americani” del lotto, in bilico fra i passaggi acustici dall’inflessione country delle strofe e le chitarre rugginose pur leggere del ritornello. Appare invece più dimessa e tormentata “Tidal Wave”, sempre estiva ma più da giornata poco soleggiata, variabile, a tratti piovosa con mare in tempesta, il titolo dice tutto, la poco folta sequenza di soffici e cupe note di chitarra è il fulcro di tutto. Il brano che si contrappone all’atmosfera generale del disco è tuttavia un altro, “Standing in the Dark”, che praticamente stona con la copertina, ha un mood autunnale e grigio, la linea di basso poi lo fa sembrare quasi gotico nel suo incedere. Delude invece “Those Days”, solita ballad elettroacustica che vorrebbe essere la nuova “Photograph” ma non ci riesce, prova a riproporre quel tipo di testo basato sui ricordi del passato ma la melodia non cattura, sembra priva di mordente. Il brano spiccatamente pop, quello proprio spoglio di alcuna pretesa se non quella di divertire un po’, comunque c’è e consiste nella conclusiva “Just One More”, anch’essa da collocarsi in fondo nell’indice di gradimento ma tranquillamente gradevole, si abbassa un po’ a certo pop da classifica ma si mantiene giusto un gradino sopra.

Ora qualche riflessione su cosa questo disco è. Sarà una paraculata commerciale o risalta veramente lo spirito del gruppo al momento? Beh, dopo quello che avevano dichiarato sembrerebbe che la prima opzione sia più ovvia, che la possibilità di fare singoloni di successo abbia prevalso sulla presunta voglia di metallo. Ma è tutto da mettere in dubbio, i Nickelback di successo ne hanno già abbastanza e di singoli di successo pure, non avrebbero bisogno di ulteriori trovate commerciali, in realtà la strada intrapresa è perfino rischiosa: già sono presi costantemente a frecciate e accusati di fare un rock piatto e commerciale, con una sterzata del genere non fanno altro che accrescere la fama negativa che si sono attirati, in più rischiano di essere criticati anche dagli stessi fan o da chi qualcosa di buono in loro lo trova. Quindi paradossalmente possiamo affermare che non solo “Get Rollin’” non è un disco ruffiano ma è addirittura coraggioso, hanno fatto qualcosa di potenzialmente in grado di far perdere qualche consenso, probabilmente hanno fatto davvero quello che si sentivano di fare.

Chissà che fine avrà fatto il presunto disco metal che volevano fare… Sarà forse “Get Rollin’” la controparte soft del disco che verrà? Avranno per caso voluto approfondire questo lato per poi tirare fuori quello più aggressivo e pesante nel disco successivo? Beh, non sarebbe affatto una cattiva idea, band decisamente superiori a loro sotto ogni aspetto hanno fatto quest’esperimento con ottimi risultati, pensiamo agli Ayreon con i due capitoli di “Universal Migrator” o il percorso inverso fatto dagli Opeth con l’accoppiata “Deliverance”/“Damnation”. Staremo a vedere cosa uscirà dal cilindro.

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