E poi boh, dopo un paio d’anni ti viene voglia di riascoltare i Nickelback. Da uno come me che ama il prog o comunque si dirige verso qualcosa di tendenzialmente variegato, sofisticato, interessante, particolarmente ben suonato e si tiene solitamente lontano dal rock più sempliciotto, scarno e operaio vedere una recensione su un disco dei Nickelback fa sicuramente strano. E invece è una band che ascolto con gran piacere seppur nella piena consapevolezza del fatto che si tratta di una band operaia. Forse ciò che mi colpisce di loro è il saper trovare il giusto compromesso fra aggressività e melodia; band che dopo gli inizi orientati verso un più o meno dichiarato post-grunge ha virato su qualcosa di più duro con “The Long Road” e ha alternato invece pezzi più duri ad altri più soft nei tre dischi successivi. Io ascoltai parecchio “The Long Road” nella primavera del 2006 perché me lo passò un amico per poi riscoprirlo nel 2008 nel periodo pre-maturità, assieme al successore “All the Right Reasons” e al predecessore “Silver Side Up”; ascoltai anche “Dark Horse” quando uscì poi misi definitivamente nel cassetto i canadesi; poi un paio di mesi fa la voglia di riscoperta, l’ascolto dei dischi non ancora ascoltati e il nuovo “amore”.
Ecco così che mi ritrovo a recensire il loro ultimo lavoro “No Fixed Address”. E devo dire che mi ha parzialmente spiazzato. Trattasi infatti di un disco diverso dai precedenti. Qui la band canadese probabilmente più odiata del globo ha voluto tentare cose nuove forse con la consapevolezza di venire odiata ancora di più di quanto già non lo sia. Ciò sorprende per il semplice fatto che la band finora non aveva praticamente mai accolto elementi che si discostassero da sonorità alternative rock/metal, post-grunge e pop-rock. Invece qua si trovano un bel po’ di cose che nessuno si sarebbe mai aspettato di incontrare mettendo su un disco dei Nickelback; un disco un po’ più libero insomma ma tuttavia nemmeno un cambiamento radicale (solitamente nelle melodie si sente abbastanza che sono loro).
Per cominciare i brani seriamente hard in pieno stile Nickelback sono pochissimi: essenzialmente i primi due, “Million Miles an Hour” e “Edge of a Revolution” e in parte anche “Get’Em Up” (già però più contaminata da particolari effetti); la parte melodica invece è rappresentata da “Satellite”, ballata pop-rock molto radiofonica sullo stile di “Photograph” con però aggiunta di voce femminile e inserto d’archi, rappresenta il tipo di composizione a cui i Nickelback concedono ampio spazio a partire da “All the Right Reasons”.
Ma veniamo ora alle sorprese… Cominciamo ad esempio con il citare l’insolito elettro-pop di “What Are You Waiting For?” e “Miss You”; dai suoni più acidi il primo, più zuccherino il secondo, brani ad essere sinceri piuttosto ruffiani, che proiettano i Nickelback nel puro pop e nel commerciale (sinceramente mi sorprende il fatto che, almeno in Italia, le radio commerciali non trasmettano più i loro brani se non le solite “Photograph”, “Someday” e “How You Remind Me”, facendo credere alla gente che siano “spariti”), brani i cui suoni avrebbero meritato di essere messi più in risalto e che invece risultano essere soffocati dalla voce come accade spesso nelle produzioni pop odierne… ma la semplice idea di proporre qualcosa di diverso e inusuale nonché il cuore mi spinge a porre il thumb up.
Totalmente lontana dallo spirito dei Nickelback anche “She Keeps Me Up”: un funk insolito con ritmiche, linee di basso e schitarrate frizzanti che rimandano alla disco-music; anche qui si affaccia una voce femminile. Due anni prima anche i Muse furono colpiti da questa voglia di funk con il brano “Panic Station” (il primo a cui ho pensato dopo aver ascoltato questo brano)… con la differenza che dai Muse te lo aspetteresti, visto che loro sono noti per il loro eclettismo, dai Nickelback mai. Brano molto da pre-serata, da aperitivo, brano che sembrerebbe scritto apposta per scaldare l’ambiente prima di entrare nel vivo di una serata.
Tracce di funk anche in “Got Me Runnin’ Round” (soprattutto nelle chitarre) ma qui a fare la differenza è la presenza di una parte rap intonata dal rapper Flo Rida ma soprattutto l’inattesa sezione di ottoni nel ritornello.
Invece in “Sister Sin” si tocca il country - grazie alle parti di chitarra acustica - probabilmente già sfiorato in brani come “Rockstar” e “This Afternoon” ma mai così clamorosamente; anche qui vi è però una ritmica funk di fondo e pure un intermezzo caratterizzato da un handclapping.
Sorprendono meno invece la quasi cinematografica “The Hammer’s Coming Down” (vagamente vicina a certi Linkin Park) e la più tradizionale “Make Me Believe Again”, comunque caratterizzate da suoni nuovi per il gruppo.
Venendo ad una valutazione generale mi esprimo dicendo di aver nel complesso apprezzato questa sterzata; chi mi conosce sa che io sono il primo a promuovere i cambi di rotta e a ritenerli piuttosto importanti nella carriera di una band. Ciò non toglie che delle critiche si possano comunque fare: ad esempio avrebbero potuto risaltare e curare meglio alcuni elementi (soprattutto le impercettibili influenze elettroniche sparse qua e là); l’impressione è che si siano lasciati un po’ troppo guidare dalla necessità di successo radiofonico (e non è che ne avessero urgentemente bisogno), necessità senza la quale il risultato sarebbe stato probabilmente migliore. Ma non possiamo chiedere troppo da una band che è sempre stata una band molto diretta e operaia nonché più o meno sempre abituata a navigare nell’oro del music business; la valutazione è all’incirca poco sopra la sufficienza ma il livello dei Nickelback è sempre stato all’incirca questo, nessun flop, nessun salto di qualità. Facendo un paragone sentimentale potrei definire i Nickelback una “band da trombamicizia”: non saranno la band della vita ma ti possono regalare sporadicamente momenti godibilissimi… e anche “No Fixed Address” lo è!
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