Se vieni da Neptune City, e Nicole viene all'incirca da lì, puoi andare a bussare alle porte del dorato mondo del cinema vantando la concittadinanza con Jack Nicholson, e non è cosa da poco e magari qualcuno ti apre pure.

Altrimenti, se vuoi tentare di sfondare nell'altrettanto dorato mondo delle sette note come Nicole, potresti spendere il nome di quel Garry Tallent che fin da subito entra a far parte della E-Street Band e girovaga in lungo e in largo in compagnia di Bruce Springsteen e tanto che ci sta, per ingannare il tempo tra una meta e la successiva, gli racconta della prima celebrità nettuniana, Marie “Madame Marie” Castello, e lui se ne invaghisce al punto da riservarle una piccola parte in «4th of July, Asbury Park» al fianco della protagonista indiscussa Sandy.

Fatto sta che Nicole si è messa in testa che da grande farà la cantante e proprio di questo vivrà, così che durante gli anni della scuola e del college mette su un gruppo che dura giusto quegli anni, appunto, e dopo se ne perdono subito le tracce, come quelle di un ep che circola poco o niente.

Nicole, però, non si scoraggia e continua a coltivare con testardaggine e caparbietà la sua fantasia adolescenziale, finché realizza il più classico dei sogni americani ad occhi aperti e si ritrova tra le mani un contratto discografico nientemeno che con una major, lei che è un'assoluta esordiente, anzi nemmeno quello, e intorno a lei tutti a chiedersi come sia potuta andare questa storia: è andata che qualche capoccione della major in questione è pronto a scommettere un mucchio di soldi sull'esplosione di un'adolescente inglese che di soldi gliene farà rientrare mille volte tanti, sfruttando la formula semplice semplice del chamber pop, il pop un po' elegante e un po' sbarazzino degli anni '50 tenuto su da orchestrazioni di archi e fiati che spuntano da ogni dove; per inciso, quella è pure la formula magica di Nicole e i capoccioni non esitano a scritturarla, prevedendo in lei l'ennesima gallina dalle uova d'oro.

Se, poco rispettosamente, Nicole dovrebbe impersonare la gallina, allora il suo disco d'esordio da solista dovrebbe essere l'uovo dorato, e un simile prezioso dovrebbe avere un titolo ad effetto. In cerca d'ispirazione, Nicole ogni pomeriggio indice una riunione presso la caffetteria di Neptune, da sempre il suo punto di ritrovo favorito, cui sono convocati l'innamorato e gli avventori più fedeli, che la vicenda di Nicole la prendono dannatamente sul serio perché quella ragazza l'incontrano immancabilmente da anni e adesso è un po' come se fosse pure figlia loro o almeno una di famiglia, da sostenere quando la vita le sta per svoltare in meglio e con cui congratularsi a cose fatte. Non si sa bene chi propone il titolo «Neptune City», perché è un segno di identità e pure perché rimanda a «Greetings from Asbury Park», anche se questa la capiscono in pochi; sia come sia, Nicole si risolve per «Neptune City».

Ecco, magari quella tempesta di cervelli ha partorito un venticello, però l'album è accolto dalla critica e parimenti vende discretamente e i capoccioni della major non si lamentano, pur non ritrovandosi tra le mani l'agognato uovo d'oro, ma tanto il pronosticato botto l'ha fatto l'album di quell'altra, l'adolescente inglese, Adele, il suo «19» vende uno sfracello, pure se il titolo è quello che è, cioè pure meno di «Neptune City».

Alla caffetteria fanno rifornimento di bottiglie di quelle buone per festeggiare Nicole che torna a casa; solo che la festa non va come sarebbe dovuta andare nel migliore dei mondi possibili e, tra una bottiglia e l'altra, Nicole viene scaricata dal suo innamorato; non la prende bene e avvia un sodalizio fin troppo stretto colle bottiglie di cui sopra; e poi una sfilza di azioni di cui non va fiera; e la cosa migliore che riesce a combinare è dare vita alla sua alias Rhonda Lee per imputarle tutte le brutture, un po' come il dottor Jeckill e il signor Hyde, colla differenza sostanziale che Rhonda Lee non fa del male a nessuno, se non a Nicole.

Ora, se ad un certo punto Adele avesse dato fuori di matto, di certo i capoccioni della major non l'avrebbero silurata così su due piedi, come invece danno il benservito a Nicole e pure a Rhonda Lee; e siccome i proverbi sono tali perché rivelano palesi verità, per quelle due continua a piovere sul bagnato, e proverbialmente la loro vita va a rotoli.

Nicole prova a invertire la rotta e si affida ancora una volta alla musica, dice addio ai sogni di gloria e al chamber pop e inizia a lavorare a un nuovo album, lo vuole deciso e diretto, come una doccia gelata che le snebbi le idee e la faccia tornare in sé; il nuovo album viene fuori così, proprio come lo vuole Nicole, ma non raggiunge nessun altro risultato se non quello di aumentare il suo smarrimento, non ci si riconosce; non la riconoscono nemmeno i fedeli avventori della caffetteria, che adesso l'incontrano solo sporadicamente, però le vogliono sempre un gran bene, perché dopo tutto Nicole è come se fosse pure un po' figlia loro e ora che la sua vita ha svoltato nel senso sbagliato quel bene è diventato un mondo; così, non si sa bene chi, la convince ad affrontare un percorso di riabilitazione e smettere di dare ascolto a quello che Rhonda Lee le sibila nella testa, che no, ce la possono fare da sole a rimettersi in sesto, stanno benissimo da sole, loro due, non hanno bisogno di nessun altro.

Nicole inizia la riabilitazione, a parlare sempre meno con Rhonda Lee, a darle sempre meno ascolto. Dura qualche anno. Alla fine, Nicole decide che è tempo di separare il suo letto da quello di Rhonda Lee, poi di separare le stanze, però con dolcezza, augurandole teneramente la buona notte prima di spegnere l'abat-jour e chiudere la porta.

Nasce così «Goodnight Rhonda Lee», resoconto in prima persona, fedele e a posteriori di mesi tribolati vissuti nel fisico e nella mente, levigati solo dalla consapevolezza talvolta amara talaltra ironica della narratrice e dalla dolcezza della musica e di quel chamber pop al quale Nicole approda nuovamente, per saldare i conti e chiudere il cerchio.

«Dicono che starei meglio da sola / Ci sto provando / Per piacere, se mi vedete piangere / Scusatemi, sono lievemente pazza».

Iniziano così le confessioni di Nicole, dalla consapevolezza della solitudine passata e il desiderio presente di compagnia e aiuto, anche in musica; chiama i vecchi amici di sempre, che adesso la riconoscono di nuovo, adesso sì che la riconoscono quella loro “figlia” e rispondono presente senza esitare un momento, e rispondono pure alcune conoscenze illustri: c'è Chris Isaak, legato a Nicole dall'idem sentire per le atmosfere languide, le ballate in odore di country intarsiate da una slide che sembra piangere e le orchestrazioni vecchio stile, e firma insieme a lei l'iniziale «A Little Crazy» e l'omonima, splendida «Goodnight Rhonda Lee»; e ci sono i Dap-Kings a innervare di energia soul «Brokedown Luck».

Soprattutto c'è Nicole che si racconta e ti racconta delle serate spese a cantare le sue canzoni alle ombre stagliate sulle mura delle stanze, imparando a convivere colla solitudine, cedendo al suo fascino, nel mentre culla la speranza che capiti qualcuno a salvarla dai suoi pensieri più oscuri; di qualcuno che abbia qualcosa da raccontare e che valga la pena di ascoltare e del desiderio di perdersi ad ascoltarlo, per recuperare tutto il tempo speso a parlare vacuamente; di tutte le occasioni mancate e che non ritornano e di noi comuni mortali che, a differenza dell'araba fenice che rinasce dalle sue ceneri, noi bruciamo e ci abbattiamo al suolo e non c'è resurrezione; della speranza di risvegliarsi da un incubo in un sogno senza dolore, dopo tante notti trascorse ad ascoltare il respiro ed il cuore che batte troppo forte.

Che, in fondo, è il migliore augurio che si possa rivolgere, dopo aver augurato la buona notte a Rhonda Lee e che pure lei trovi pace.

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