Una vera scena apocalittica in Italia non esiste. Coloro che sono emersi hanno dovuto, per forza di cose, oltrepassare i confini predicati dall'ortodossia del genere nella sua accezione più classica. Spiritual Front, Ianva, Rose, Rovine e Amanti (i primi nomi che mi vengono in mente) hanno puntato, chi in un modo, chi in un altro, sulla carta dell'italianità, approdando agli spaghetti-western, agli umori da bettola e al cabaret (Spiritual Front), al progressive ed alla musica leggera della tradizione canzoniera nazionale (Ianva), alla musica sacra ed al richiamo delle ambientazioni mediterranee (Rose, Rovine e Amanti). Non sempre, ahimè, con risultati soddisfacenti. Per questo è con grande piacere che mi avvicino alla musica dei pugliesi NID, finalmente un progetto che possiamo definire sinceramente apocalittico, come in Italia è difficile trovare.

Nati a Lecce nel settembre del 2011, i NID intraprendono una gavetta che li porta prima alla pubblicazione dell'EP “Nature in Disguise” e di seguito ad una attività concertistica che li ha visti spalla di act quali Spiritual Front ed Antimatter; sotto l'ala protettrice della lungimirante etichetta spagnola La Esencia, esce finalmente il sospirato album di debutto: con “A Fair Masquerade” i Nostri non temono di confrontarsi con i grandi nomi del genere (Death in June, Blood Axis su tutti), evitando di incorrere nel rischio di volersi distinguere a tutti costi, una via che in effetti ha snaturato il percorso di molti. Fra neo-folk e industrial, il quartetto salentino (Luca Attanasio alla voce e ai synth, Cosimo Barbaro al basso, Luca Mazzotta alla chitarra e Alessandro Mangione responsabile dei campionamenti e della programmazione delle parti elettroniche) metabolizza una tradizione apocalittica lunga oramai trent'anni, che muove dal leggendario “Brown Book” per giungere ai nostri giorni: una visione artistica che sembra privilegiare i Blood Axis nella loro ultima incarnazione (quelli del recente “Born Again”, uscito nel 2010) e che finisce per approssimarsi alla poetica romantica e decadente dei Rome (i Rome dei lavori di “ mezzo”: “Confessions d'un Voleur d'Ames” e “Masse Mensch Material”).

Ma “A Fair Masquerade” non è la semplice ripetizione di stilemi già esistenti, bensì un insieme organico in cui queste influenze vengono rilette attraverso una lente rigorosa, implicata da una personalità già presente, sebbene ancora in via di definizione. Al di là del coraggio di dar vita ad un progetto neo-folk nel bel mezzo del Salento (!!!), è la sostanza, l'elevato numero dei colpi vincenti messi a segno in questa “opera-fiume” a decretarne il successo, travolgendo e disperdendo quelle inevitabili incertezze suggerite dalla poca esperienza. “A Fair Masquerade” è anzitutto un disco di quantità, e ciò non vuol dire che sia carente sul fronte qualitativo, anzi. È un disco di quantità perché è lungo più di un'ora e contempla ben tredici tracce; è di quantità perché rifugge ogni tentazione minimalista, come spesso invece capita laddove dietro ad un monicker si nasconde una one-man band.

I NID sono invece un vero gruppo e dei musicisti preparati. Il sound che mettono insieme è corposo e denso di sfaccettature, e uno dei meriti della buona riuscita dell'operazione va senz'altro al basso di Barbaro, che, oltre ad amalgamare le due anime della band (quella acustica e quella elettronica, di cui Mangione, oscuro tessitore di scenari da cortina di ferro, sembra esserne il motore primo), conferisce spessore e solidità alle composizioni. Composizioni che, spesso animate da una verve percussiva che le avvolge in un densa aura marziale, oscillano fra la più tipica ballata folk e la soluzione industriale. Protagonisti assoluti: 1) il canto spossato, titanico del bravo Attanasio, in bilico fra recitato e declamazione (e spero di fargli un complimento se gli dico che il suo timbro è simile a quello di Michael Moynihan); 2) la versatile chitarra di Mazzotta, il quale travalica in più di un frangente i tipici accordi apocalittici, per lanciarsi in fantasiosi arpeggi, note inanellate con perizia e vivacità che tradiscono una vaga ascendenza mediterranea. La terra del mare e del sole viene tuttavia richiamata solo nell'approccio “barocco” con cui vengono delineati gli scenari descritti, perché per il resto (come suggerisce l'immagine ritratta in copertina) il mondo evocato dai NID è una dimensione plumbea, densa di nubi, ammorbata da uno spleen decadente che convive armoniosamente con uno spirito di invincibile resistenza.

Perché il ballo in maschera, la messa in scena di cui ci parlano i NID è quel circolo di ipocrisia ed omologazione che avvelena la convivenza sociale per tutto il corso della nostra esistenza, fino alla mascherata finale, quella definitiva, ultima, in cui, spogliati dalle convenzioni e dalle maschere, nudi, soli, affronteremo la Morte. In coerenza con il concept rappresentato, la via tracciata dai NID è un percorso di Verità, di solitudine (“Am I born to fight alone? Am I Born to shine alone?”), di sofferta contemplazione e ricerca interiore. Forse votata ad una sconfitta inevitabile, ma sicuramente una crescita.

Musicalmente “A Fair Masquerade” presenta i difetti che sono tipici in un album di debutto: la produzione è buona, ma dei suoni meno piatti, descrittivi, didascalici, avrebbero migliorato il quadro, laddove, nello sforzo di rendere distinguibile ogni strumento ed effetto (cosa evidentemente ricercata e voluta), appaiono leggermente plastificati, soprattutto quelli utilizzati per le percussioni e le parti orchestrali. Dal punto di vista della scrittura, le influenze sono ancora evidenti e guardano inevitabilmente ai classici del genere. E' legittimo, infine, che “A Fair Masquerade” pecchi di quella foga di voler-metter-dentro-tutto che coglie le giovani band innanzi al loro esordio: da qui la tendenza a disperdersi in soluzioni non indispensabili, tutti elementi, idee, sensazioni probabilmente disseminati, accumulati e sedimentati nel corso degli ultimi due anni. Punti di marginale debolezza che non ledono il valore complessivo dell'opera, perché, come si diceva, “A Fair Masquerade” rimane (nel senso positivo del termine – anche “The Wall” dei Pink Floyd lo era) un disco di quantità, nel quale albergano momenti di alto livello: il trascorrere dei minuti ci convincerà della bontà dell'opera.

Un'opera quindi fatta di sensazioni contrastanti. Se l'introduzione “1-982” rischia di scadere nel prevedibile e di scivolare via senza lasciare il segno, la traccia successiva “Again”, nella sua capacità di incantare e di sospendere il tempo, nella sua solennità, amarezza, nel suo innegabile potere evocativo, è sicuramente il miglior biglietto da visita che la band poteva offrire all'ascoltatore. Opera di contrasti, si diceva, per questo non c'è da stupirsi se successivamente ad un brano come “Shattered Flowers”, imperniato attorno a spietati pattern di elettronica glaciale, ci imbattiamo nel calore misticheggiante del canto gregoriano che apre “North's Fire”. Un disco che adotta in toto la lingua inglese, ma in cui trova spazio anche un episodio cantato in italiano (la suggestiva “Ultimo”, in verità per metà strumentale).

E non ci scandalizziamo se in coda al formidabile poker “Sulphur Soul”/“Always”/“Golden Beast”/“Loss”: un'incredibile sequenza in cui il primo brano vede flirtare niente meno che il Nick Cave dei tempi d'oro con i migliori Death in June; la seconda è un'escalation marziale che richiama la morbosità della premiata ditta Ordo Rosarius Equilibrio/Spiritual Front; il terzo, un'altra aspra ballata che continua a citare i Blood Axis del loro ultimo fantastico lavoro; il quarto, un brano semplicemente splendido (per chi scrive l'apice, non solo concettuale, ma anche emotivo dell'opera intera), un accorato inno ad un individualismo indomabile forse destinato a naufragare contro il mondo delle convenzioni e del determinismo sociale; non ci scandalizziamo, si diceva, se dopo le lacrime versate, il pathos percepito, la vitalità saggiata durante la coda epicheggiante dell'avvincente “Loss” , ritroviamo il silenzio e le campane che suonano a morto di “Einsamkeit Buried in Sun”. E il cupo ed intimo incedere delle ballate che seguono.

E se la funerea “Standing among the Ruins” ci riconsegna i NID in formato sintetico, a svellere nuovamente tutto l'armamentario elettronico troviamo i nove minuti della conclusiva “White Rooms”, cruenta cavalcata in stile Sol Invictus che si fregia di un'intensa e belligerante coda strumentale, tanto struggente quanto cazzutamente apocalittica (come del resto insegna il più grande cazzuto fra i folkettari apocalittici, alias Tony Wakeford): commiato inevitabile per un album che finisce per sorprendere anche l'ascoltatore più smaliziato, offrendo una prima parte non priva di incertezze, ma ricca di buoni spunti, ed una seconda praticamente perfetta.

Parafrasando i versi di una loro canzone, non è dato sapere se questi NID dovranno combattere nella solitudine, ma sicuramente risplenderanno nel cielo pallido del panorama apocalittico italiano.

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