L'ha scoperta John Zorn. E basterebbe questo. Per chi ama Zorn, basterebbe questo per mettersi immediatamente sulle tracce di questa trentaseienne violoncellista coreana, per molti ancora "oggetto misterioso" della nuova avanguardia. Per chi Zorn non lo ama, ugualmente basterebbe questo per abbandonare all'istante questa pagina e passare alla lettura di un'altra recensione, perché l'album che propongo qui non fa certo per loro.

Una proposta "elitaria", direte voi? Non lo so, in fondo nel concetto di "élite" musicale c'è un qualcosa di snob, di settario, di freddamente accademico; e nulla di tutto ciò traspare dai dieci, irresistibili episodi che vanno a comporre "Nihm", l'opera prima della musicista nata a Daejon ma, di fatto, newyorkese per formazione musicale e culturale in genere. Perché c'è spontaneità, c'è libertà (controllata nei momenti più "cerebrali", sfrenata ai limiti del delirio nei tratti di improvvisazione più estrema), c'è la sperimentazione bizzarra e visionaria dei primi Henry Cow, ci sono le geometrie complicate e spigolose dei Soft Machine di "Fourth", c'è infine tanta, tanta passionalità e dedizione allo strumento: con Okkyung e il suo violoncello si ripropone, in forme avanzate e modernissime, il rapporto di "erotica" simbiosi fra esecutore e strumento, un legame di reciproca e pervasiva compenetrazione. Rimane impressa, per chi ha assistito ad una sua improvvisazione (e purtroppo Youtube è ancora parco di testimonianze al riguardo), l'immagine di questa ragazza ad occhi chiusi, totalmente assorta e rapita, il volto madido di sudore, che come una Furia si avventa, archetto alla mano, sul suo strumento, intrattenendo con esso un rapporto che non ha nulla di "platonico", ma ha i tratti effettivi dell'unione carnale. Nella splendida, indescrivibile copertina di questo album (si, ancora nel terzo millennio è possibile ideare capolavori d'arte visuale), la musicista è ritratta con la testa abbandonata all'indietro, i lunghi capelli sciolti, uno sguardo che appena si coglie sul viso rovesciato: in quella fotografia si percepisce l'irrefrenabile entusiasmo dell'esecuzione, la "trance" in cui l'esecutrice è precipitata, lontana da tutto e da tutti; con lei, solo ed unicamente il suo violoncello, ideale e perfetto viatico per tortuosi percorsi sensuali.

Attorno alla "veggente" si raccolgono musicisti d'indubbio valore, dalla veterana Ikue Mori all'elettronica (personaggio di culto ed emblema vivente della sperimentazione in tutte le sue salse)  a Tim Barnes e Trevor Dunn. Quadri sonori incerti e variabili sono quelli che si aprono agli occhi degli ascoltatori; e non a caso parlo di "occhio" e non semplicemente di "orecchio", perché questa è musica che ha una potenza evocativa bestiale, devastante; musica tanto potente da farsi essa stessa "materia", da generare immagini vive, concrete, sfumate ma presenti. I titoli sono istruzioni per l'immaginazione, e se il pezzo d'esordio s'intitola "On A Windy Day", non ci vuole molto a capire che quei disarticolati frammenti percussivi corrispondono a foglie, ramoscelli, oggetti e cose spazzati via dalla furia del vento in una giornata autunnale: è un romanticismo moderno, è l'ineffabile pulsione della natura che confluisce nella musica e le da sostanza. Trilli, schiocchi, fruscii e acuti rumorismi si susseguono e si sovrappongono, figli della casualità eppure amalgamati e giustapposti al punto da assomigliare ad una maestosa sinfonia di orologi impazziti, orchestrata dal costante e severo mugugno del violoncello di sottofondo. 

E quanta Canterbury c'è in "That Undeniable Empty Feeling", "quell'innegabile sensazione di vuoto" espressa fra le pieghe d'una composizione aperta da contrabbasso e percussioni, e poi scandita dall'unisono del violoncello e del clarino di Doug Wieselman; quanto Keith Tippett, quanto Jazz inglese-primi '70 nella selvaggia cacofonia della seconda parte? Instabili e contraddittori, gli umori della Nostra, se con la disinvoltura di una veterana riesce a passare dal rumore alle delicate e ammalianti armonie di "Story Of You & Me", salvo poi ripiombare all'improvviso in isolati istanti di confusione. Spettrali e meravigliosi gli oltre sette minuti di "Returning Point", saliscendi emozionale di violoncello e contrabbasso da lasciare attoniti e inebriati, e l'elettronica casereccia della Mori a far capolino di tanto in tanto. E che dire del classicismo malinconico di "Sky", della rabbia a stento repressa di "Closed Window", del lento e sonno-lento risveglio di una "437 Tuesday Morning" che debole va a spegnersi sul finale?

Signori, siamo in presenza di una delle più grandi musiciste contemporanee, e il livello della sua arte è mondiale. Le 5 stelle che assegno sono in realtà un non-voto, perché certi dischi preferisco definirli "fuori-categoria". E Lei è fuori dai generi, fuori dalla musica stessa, fuori di sé. Semplicemente, fuori.  Come tutti i Grandi.

Tornerò a parlare di Lei, prima o poi, c'è ancora tanto da esplorare, fra i risvolti della sua inafferrabile arte. Ma intanto abbandonatevi a quello che sentite in questi 47 minuti, e ditemi che ne pensate... 

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