Una gradevolissima, inaspettata sorpresa, e un autentico regalo per migliaia di appassionati: nel 2006, a settantasei anni suonati, Ornette Coleman ci regala uno dei suoi dischi più belli di sempre. Un pugno di composizioni originali (l'iniziale "Jordan" è già da tuffo al cuore), più la rilettura di alcuni classici del passato, dal celeberrimo "Song X", al riuscitissimo ripescaggio di "Turnaround", un blues modificato che a distanza di oltre quarant'anni non ha perso un grammo del suo sghembo splendore.
La musica di Ornette Coleman, nella sua forma più matura e compiuta, sortisce allo stesso tempo due effetti dirompenti ed antitetici. Primo: ti leva da sotto i piedi, senza neanche che te accorgi, tutte le certezze armoniche e ritmiche non solo tue, ma di tutte le generazioni di ascoltatori che ti hanno preceduto. Secondo: ti prende per mano e ti immette in un inarrestabile flusso di energia, capace di abbracciare l'intero spettro dell'emotività umana. La magia, che consegna per sempre questo autore alla storia della musica, è quella di far convivere questi due aspetti antitetici in una poetica, totalizzante omogeneità.
L'ascolto di questo, come molti altri dischi di Ornette può somigliare a quei momenti di trance involontaria che ciascuno di noi vive quotidianamente. Come quando si cercano le chiavi di casa, e ci si accorge di averle in tasca solo dopo averci infilato la mano per la millesima volta. Oppure, dopo un breve tragitto in autostrada, ci si ritrova al casello di uscita senza ricordare nient'altro che l'inizio del viaggio.
L'inizio del viaggio, in questa musica, è ben noto; ma ben presto ci si ritrova in luoghi esotici, seducenti e totalmente inesplorati, senza potersi minimamente rendere conto di come si è arrivati fin là. E ci ritroviamo a cavalcare molteplici linee melodiche, apparentemente svincolate da un comune substrato armonico, che dialogano, si incontrano e si scontrano, svelando riverberi segreti e misteriose, implicite assonanze.
Si potrebbero dire molte cose di questo disco: del magistrale quartetto con due contrabbassi, di come Greg Cohen sia ormai una splendida realtà in grado di rivaleggiare con il Charlie Haden delle incisioni storiche, di come il nuovo acquisto Tony Falanga, proveniente dal mondo classico e dall'avanguardia, con il suo incessante uso dell'archetto fornisca il vero collante di tutto l'impianto musicale (qualcuno ha detto David Izenzon?). Si potrebbe dire di quanto il figlio Denardo alla batteria, figura mal tollerata dai fans, stia lentamente avvicinandosi alla statura di un vero solista.
Si potrebbe parlare delle composizioni, dello "start and stop" tanto caro ad Ornette in "Jordan", degli echi di flamenco in "Matador", del lirismo tipicamente colemaniano di "Sleep Talking" e "Waiting For You", della magmatica energia scaturita dalla collisione dei contrabbassi, del consueto "stupro" al violino qua e là, con movenze quasi country.
Si potrebbero dire molte cose ancora: ma è molto meglio che l'ascoltatore scopra da solo questo piccolo scrigno di meraviglie.
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