Chi mi conosce sa quanto adoro Orson Welles. Già parlando di "Citizen Kane" ne avevo parlato come il più grande artista della storia del cinema.
Non ho una particolare scaletta, tipo questo mi piace più di quell'altro, perchè di Welles mi piace tutto. Certo, è ovvio che se dovessi scegliere fra i suoi film migliori, non esiterei a dire "Quarto Potere" e "L'infernale Quinlan", ma poi mi assalirebbero i rimorsi per non aver detto "L'orgoglio degli Amberson" o "Rapporto confidenziale". O altri film cosiddetti minori, ma che sono in realtà dei purissimi capolavori, come ad esempio "Falstaff".
La gigantesca figura autoriale di Orson Welles ben si amalgamava con quella teatrale: un gigante in mezzo ad un palco. Orson Welles è il William Shakespeare del cinema, la personalità forte, autoritaria, un vero e proprio deus ex machina. Già cimentatosi con l'Otello (altro film da recuperare) Welles mescola insieme alcune celebri opere del Bardo inglese, "Enrico IV" e "Riccardo II", "Le allegre comari di Windsor" ed un pizzico di "Amleto", frullando l'insieme in maniera meravigliosamente geniale, tanto da formare un'opera unica, indimenticabile, strabordante nella propria ostentata magniloquenza, formalmente elegantissima, epica e fuori da qualsiasi schema prestabilito, "Falstaff", l'opera monumentale che verrà presa a modello da grandi registi già affermati (Akira Kurosawa) e giovani promettenti (Martin Scorsese, si veda il suo "Viaggio nel cinema americano") come esempio di cinema indipendente e coraggioso, milionario eppure libero da qualsiasi vincolo di major e case di produzione.
"Falstaff" è un'opera d'arte di proporzioni inumane, un film che mescola il destino dei perdenti con le ragioni della Storia, il disfattismo delle guerre e la fatalità del caso, ma è anche una durissima critica al potere corrotto che corrompe prima l'uomo e poi la propria anima. Dietro il personaggio di Hal però, si nasconde anche la malinconia della propria età, l'incedere incalzante di anni sempre più pesanti, la solitudine che non può essere compensata dalla ricchezza e il fallimentare raggiungimento di uno scopo. Il tutto trasportato nel 1408, quando Hal, figlio di Enrico IV, benchè ricco e prossimo al trono, preferisce banchettare in una popolarissima osteria gestita dalla signora Quickly e discutere ore ed ore con l'amico John Falstaff (Orson Welles). Quando i nobili dichiarano guerra alla corona, Hal si vedrà costretto a rinnegare il proprio passato, ripudierà l'amicizia di Falstaff e salirà al trono.
Dietro c'è tutto un lavoro tecnico che andrebbe sezionato fotogramma per fotogramma, perchè è proprio lì, fra i meandri della tecnica wellesiana, che si nasconde la vera e più grande essenza del cinema. Dietro alle continue ricerche visive tipiche dello sperimentatore Orson Welles: grandangoli eccessivi, monumentalità nelle scene più basse (e cioè quelle all'interno dell'osteria), riprende le scene di battaglia con un enfasi ed una potenza dell'immagine che nessuno è mai riuscito ad egugliare (lontana anni luce da quella di "Braveheart" che molti, forse per ignoranza storica, celebrano come epica e monumentale), taglieggia alcune inquadrature rendendole epiche grazie ad un solo movimento di camera, si riserva per sè il personaggio apparentemente secondario di John Falstaff, vero e proprio manovratore di tutto ciò che accade nel film, filo conduttore di una tragedia (in parte annunciata).
Hal è Keith Baxter, perfetto nel ruolo prima confidenziale e poi spietato di aguzzino in cerca di vendette aleatorie, ed è qualcosina di più di memorabile la scena finale in cui Hal, ormai salito al trono col nome di Enrico V, ripudia Falstaff apostrofandolo meschinamente: "Non ti conosco, vecchio. Inginocchiati e prega". Se al posto di uno schermo ci fosse stato un palco teatrale, quasi sicuramente sarebbe esploso il loggione.
"Falstaff" è il più grande film degli anni Sessanta (forse al pari dell'odissea kubrickiana), ma certo è il più innovativo, il più potente, la massima espressione di un cinema non votato alle masse o al facile successo di pubblico, ma alla costante ricerca di nuovi linguaggi cinematografici, capace di innestare in una tragedia tipicamente shakesperiano gli elementi del nuovo cinema europeo, creando immagini, dialoghi e scene talmente scioccanti da risultare, ancora oggi, troppo avanguardistiche.
Non è un avanguardia surreale come quella di Luis Bunuel (che comunque ha fatto la sua epoca), è un avanguardia più popolare, meno fantasiosa, più radicata nel tessuto sociale cinematografico, più aperta e più "circolare", facile preda di abili registi pronti a trasformarla in arte moderna (oltre ai già citati Kurosawa e Scorsese, meritano menzione anche Coppola e Stone). "Falstaff" è l'emblema del cinema moderno, ma forse è al di là del moderno, è un qualcosa di indefinibile che assomiglia più al futuro che al presente.
Nel cast trovano spazio meravigliosi artisti: Jeanne Moreau, John Gielgud, Margaret Rutheford ed il nostro Walter Chiari, spogliato di qualsiasi clichè televisivo e lontano anni luce dalla comicità nazionalpopolare a cui deve principalmente la propria fortuna. Sovrasta tutti Orson Welles, regista, attore e sceneggiatore. Si dica quello che si vuole (magari aprendo una vecchia diatriba di cui non sento un gran bisogno), ma sentirlo recitare in inglese è di una bellezza disarmante. Battute, tempi, accenti, apostrofi: sembra Sua Maestà che comanda a bacchetta i sudditti.
Una testimonianza importante di cosa sia stato per molti cineasti questo film, è presente nel Dizionario dei Film del Morandini: "...film realizzato con modalità bizzarre e tecnicamente disastroso che resta tuttavia affascinante... nessun film è stato tanto personale e mi ha colpito altrettanto profondamente", parole di John Carpenter.
Barocco, folle, ambizioso, monumentale, scardinato, meraviglioso. E' la descrizione di "Falstaff", ma potrebbe essere anche la descrizione della personalità di Orson Welles. Comunque, il più grande di tutti.
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