I cinque americani sudisti della Florida (Tampa) fanno uscire questo loro terzo album nel 1977, e ci sono diverse novità rispetto al passato.

I primi due lavori erano stati del tutto simili: stessa formazione e produttore, stessi studi di registrazione e quindi anche suoni e missaggi; pure lo stesso artista a disegnare la copertina e persino la medesima, costante disposizione degli strumenti nell’immagine stereo, coi tre chitarristi uno a sinistra (Thomasson), uno al centro (Paul) e l’ultimo a destra (Jones).

Qui invece cominciano le varianti, che si riveleranno poi tante nella storia lunghissima e discretamente tribolata del gruppo. Intanto vi è un nuovo bassista, e non è un passo avanti: il moscio Harvey Dalton Arnold (anche compositore e cantante, voce alla Jackson Browne) prende il posto del fondatore Frank O’Keefe, più tosto ma purtroppo costretto a gettare qui la spugna, causa rottura dell’osso del collo in un incidente.

I Fuorilegge poi cambiano produttore mettendosi nelle mani di Bill Szymczyk, l’uomo di fiducia di Joe Walsh e poi degli Eagles. I risultati sono immediati: maggiore cura e presenza dei cori, suoni più rotondi e riverberati… insomma un aspetto più patinato ed “elegante” regalato al southern rock dei nostri.

E’ questo il disco dove rifulge in pieno il talento di Billy Jones, bravo ed infelice (suicida, diversi anni dopo) chitarrista e cantante, dotato del migliore talento melodico fra i quattro compositori del gruppo. Le sue due composizioni esclusive (ve n’è una terza insieme a Thomasson) sono gli episodi migliori del lotto. La sua voce altissima e vellutata, un po’ alla Neil Young ma… più intonata, viaggia alla grande sia nel veloce rock melodico “Holiday” che nella ballata “Night Wines”, due perle, piene di buone chitarre, ispirati assoli, probanti linee vocali, risonanti arpeggi.

Vertice assoluto del disco in quanto ad emozione è proprio il passaggio, in “Night Wines”, fra la Stratocaster solista di Thomasson, agile e puntuta, e la Les Paul di Jones, “grossa” e satura, distortissima: uno scambio di assoli fra i più riusciti della storia del rock, per quanto mi concerne.

Holiday” invece è farcita, a intervallarsi con la bellissima linea vocale dell’autore Jones, dei proverbiali, rapidi assoli di Thomasson, dall’entusiasmante suono croccante e ficcante. Un po’ tutto l’album in realtà rifulge delle evoluzioni brillantissime sulla Fender nera di questo rimpianto eroe dello strumento che fu di Hendrix, di Harrison, di Moore, di Gallagher e che tuttora rende servigio a maestri come Gilmour, Blackmore, Beck, Trower, Townshend.

Detto che i due contributi del nuovo arrivato Arnold sono entrambi insipidi, il primo “Hearin’ My Heart Talkin’” un blando bluegrass e il secondo “Cold and Lonesome” già meglio, spigliato ma insomma scolastico country rock, altra ciccia buona si trova invece nei brani dovuti alla penna del futuro Lynyrd Skynyrd Hughie Thomasson.

In particolare quello che intitola il lavoro, numero sempre presente dal ’77 in poi nei loro concerti, sostenuto prima da un obbligato di doppia solista da fare invidia ai Wishbone Ash e poi da un ritornello facile facile ma sublimemente agganciante.

Discreto poi il lungo brano, composto insieme a Jones, che conclude l’album, bipartito un po’ alla maniera progressive perché ai primi minuti assai country rock conditi di steel guitar segue un finale prima arpeggiato al sapore quasi di… Beatles, che poi raddoppia il tempo e prende velocità per far scatenare le due chitarre soliste, sia da sole che insieme.

I contributi del terzo chitarrista (solo ritmico) Henry Paul sono in chiaroscuro: uno molto buono cioè l’iniziale “Gunsmoke”, sorretta da un sontuoso riff elettro acustico e condita dalla solita solista imprendibile di Thomasson, la quale vi scorrazza senza pietà ogni volta che Paul si zittisce. “Heavenly Blues” invece, a parte il non aver neanche un accento di blues essendo puro country rock, è veramente impossibile da memorizzare per quanto è stereotipata.

Per terminare, vi è pure una sciapita cover ancora country rock, a titolo “Hearin’ My Heart Talkin’”, del tutto soprassedibile, ad abbassare un altro po’ la qualità media del disco, il quale perciò contiene quattro brani egregi, un altro paio notevoli e due o tre riempitivi immemorabili.

4 stellette qui agli indomiti Outlaws, tuttora in giro per gli USA dopo l’ennesima rifondazione.

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