Dopo i primi tre lavori di studio tutti notevoli, sicuramente i migliori di carriera e suggellati dal quarto album dal vivo a raccoglierne i momenti più riusciti speziandoli con l’energia del palco, gli Outlaws cambiano strategia e fanno uscire nel 1978 quest’opera che suona piuttosto diversa, purtroppo in peggio, da quanto fatto precedentemente.

All’uopo arruolano un produttore sudafricano allora emergente, tal John “Mutt” Lange, il quale aveva fatto il suo primo buon centro con i Boomtown Rats l’anno prima e presto avrebbe sfondato alla grande aiutando Ac-Dc, Cars, Foreigner, Bryan Adams, Def Leppard e tanti altri a diventare quello che sono diventati.

In quest’occasione però il grand’uomo ciurla nel manico e questo disco suona male, persino discretamente irritante… Faccio un elenco delle principali merde pestate da produttore e band al seguito:

_Ritmica che viaggia di metronomo, non “appoggiata” e libera e istintiva, come doveroso nel rock classico e ancor di più in quello “sudista”, che ne rappresenta un sottogenere fra i più caldi e sinceri.

_ Il suono delle chitarre è freddo, transistoroso, troppo ricco di acuti e di asperità. Troppo trattato, troppo “spinto”, anche quando gli strumenti sono acustici come in “Dreams Come True”.

_ Lange costringe il cantante principale Hughie Thomasson ad evoluire costantemente ai limiti superiori della sua tonalità. Date le non adeguate qualità canore del chitarrista, ne deriva un’emissione assai sgraziata e stridula. L’album è inoltre pieno di cori e contro cori troppo alti, scabrosi, sforzati, prolissi.

A tutto questo si aggiunge, non secondariamente, una vena compositiva decisamente con la spia della riserva accesa. Si riciclano intro e progressioni armoniche di precedenti composizioni (mi riferisco specialmente al loro capolavoro “Green Grass & High Tides”, che riappare impudentemente nel prologo di “You Are the Show” e ancora nelle strofe di “Dirty City”. Non rimane in testa quasi niente fra linee melodiche e lavoro delle chitarre. C’è poca ispirazione e molti riempitivi… anche due scialbe cover, su un totale di nove tracce.

Cosicché il pezzo migliore in scaletta risulta essere l’unico contributo dell’ultimo arrivato, il terzo chitarrista Freddie Salem salito sul carro Outlaws giusto l’anno prima, in tempo per l’album dal vivo. In “Falling Rain” egli dipinge colla sua voce strascicata ed accorata una sapida ed emozionante ballata, nella quale per una volta i cori che circondano il ritornello hanno una resa calda e pastosa, mentre le chitarre ruggiscono con forza ed armonia.

Forse è i peggior disco dei Fuorilegge, dei dodici pubblicati nella loro carriera più che quarantennale, benché costellata di sospensioni e rifondazioni. L’affettuoso mio giudizio è comunque un 5: due stellette e mezzo.

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