Prefazione culturale: l'anima dell'India dal raggiungimento dell'indipendenza è divisa tra due correnti. Da una parte è legata a tradizioni di religioni millenarie e filosofie che sono (a mia parere) la vera ricchezza del paese e che qualcuno dice non moriranno mai. Dall'altra la "civilità" occidentale la sta strattonando verso una modernizzazione spesso forzata molto forte nelle città. Due spinte diverse. Push and Pull. Chi meglio dei nostri due poteva rappresentarle? Da una parte Padan Das Baul, cantore Baul che ha deciso di offrire la musica della sua gente a un uso più moderno (i cantori Baul sono uomini e donne, spesso dalle capacità vocali immense, che vagano senza averi e ballano e cantano in modo spontaneo e libero in gruppi, raggiungendo la liberazione, il Nirvana, tramite questa pratica). Dall'altra State of Bengal, nome importante dell'elettronica underground in territorio asiatico.Insomma i due sono capaci e i generi sono abbastanza distanti perchè la loro fusione possa divenire qualcosa di eccezionale. Ma il rischio è alto e la copertina, che sembra sfornata dallo studio più tamarro di Bollywood, non fa presagire niente di buono.
Almeno la prima parte sembra però essere chiara ai due e fin dall'inizio con "Moner Manush", si capisce che fanno sul serio. Ma l'intero album, almeno per un ascoltatore occidentale, è un continuo susseguirsi di sorprese positive. State of Bengal mette in gioco una chiara esperienza e la mostra nell'alta fattura dei beat, nella complessità della struttura dei brani e nella varietà degli elementi elettronici. La voce di Padan Das Baul è d'altra parte eccezionale, sia per difficoltà dei vocalizzi che compie, sia per il timbro caldo e (per noi) esotico. Ciò che più colpisce è come i due collaborino in modo estremamente positivo ed aperto. Il cantore non si tira indietro né è a disagio su basi estremamente moderne e State of Bengal soprattutto sembra conoscere molto bene la musica tradizionale indiana e utilizza in funzione di essa tutte le possibilità dell'elettronica, creando ritmi dal sapore moderno, ma che sanno andare perfettamente a braccetto con i colpi di tamburo del cantante e utilizzando sonorità perfette ad accompagnare il lavoro di quest'ultimo. Ma le sorprese non finiscono qui, in quanto a stupire non è solo varietà di suoni (basso elettronico, sitar, chitarra acustica, synth e ovviamente diversi effetti) ma anche di scale e soluzioni armoniche utilizzate. Più di una volta si sentono armonizzazioni familiari anche a noi occidentali e qualche volta viene strizzato l'occhio pure a concetti blues (come nella superlativa "Ram Rahim"). Non posso purtroppo parlare dei testi in quanto l'indiano mi è assolutamente incomprensibile. Ciò non preclude nulla all'emozione che si ha in picchi di qualità come, oltre ai prima citati brani, "Padma Nodi". Unica vera pecca che impedisce all'album di essere un capolavoro è l'eccessiva lunghezza di alcuni brani, a volte stirati in modo un po' eccessivo e forzato.
Tana Tani fa a mio parere parte di una corrente importante non solo sul piano musicale, in quanto simboleggia per l'India una soluzione culturale in cui a convivere è il meglio delle due tendenze presenti in esso, con un risultato godibile proprio come i suoni contenuti in questo lavoro. Consiglio di concedere molto più di un ascolto all'album e di approcciarvisi con mente aperta perchè a un primo impatto può essere ostico a causa delle sonorità così nuove per chi (come me) non è avvezzo alla musica del sol levante.
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