Signori, il nuovo capolavoro di PTA. Difficile scegliere da cosa partire per parlare di un film così perfetto, un monolite di talento, tra regia, scrittura, recitazione, musica. Eppure non c'è un solo momento in cui ci si specchi, in cui si indulga in un cinema autoreferenziale. Al contrario, qui il talento va di pari passo con l'umiltà, con la volontà di essere sempre comprensibili, ma non per questo semplicistici.

Con un crescendo tanto lento quanto inarrestabile, PTA parte dalla figura di uno stilista dal brutto carattere per arrivare a definire – con accorata lucidità – il senso dell'amore, della vita di coppia, dello stare insieme. Come per un abito imponente e meraviglioso, il regista parte dai piccoli dettagli, pone delle premesse quasi banali, e poi allarga il suo ordino a una visione complessiva della vita.

C'è l'uomo, un dittatore inflessibile, un genio autistico che assorbe e annichilisce le sue “compagne”. Un uomo che è un bambino innamorato sempre e solo di sua madre, un bimbo che gioca con gli abiti perché non sa vivere. C'è la donna, una ragazza acqua e sapone con l'ossessione di conquistare quello stilista affascinante e irraggiungibile. Due figure incomplete, devianti, che in qualche modo devono trovare una quadratura del cerchio. C'è tutto il peggio – e la verità – delle figure maschili e femminile in questa storia, e c'è anche la soluzione alle loro mancanze, al claudicare delle loro personalità. Una soluzione meschina, di morbosa interdipendenza e accettazione dell'inganno altrui, pur di trovare una forma di quiescenza.

Non è necessario soffermarsi sulla bravura di un Daniel Day-Lewis magrissimo, tanto carismatico quanto fragile. Da sottolineare invece le prove eccellenti di Lesley Manville e Vicky Krieps, che con i loro personaggi vanno a comporre un triangolo di discordie e riappacificazioni che a lungo andare perde ogni logica concatenazione di causa ed effetto. Il veleno del vivere pare prendere il sopravvento, ma i risvolti restano sorprendenti – e normali – fino alla fine.

Fotografia un po' sgranata e una regia di pura classe, mai virtuosistica eppure vivace, piena di inquadrature affascinanti ma sempre sensate e comprensibili. A stupire per la sua forza e asciuttezza è soprattutto il montaggio, che condiziona in modo decisivo, insieme alla colonna sonora di Jonny Greenwood, l'atmosfera del film. Fortemente ellittico, pronto a recidere i rami secchi della narrazione. Non c'è mai un vero momento di dilatazione e sospensione per far riflettere lo spettatore, tutto scorre molto rapidamente, o meglio, lentamente ma intensamente, senza code vuote. E i tagli sono decisivi anche per impostare la filigrana morale ed emotiva del film: è come se PTA volesse scongiurare i momenti più intensi delle vicende, il sesso, il dolore, gli attriti di coppia. È una visione anestetizzata la sua, perché è la routine alienante a dover emergere, più che i picchi emotivi, rari e non realmente rappresentativi del vivere. E poi anche le più aspre contese amorose, in questa chiave di lettura, si appianano per quieto vivere, per simbiosi interessata tra le parti.

E infine la colonna sonora, che trasforma tutto quanto in un'opera d'arte completa, definitiva. Prende la dimensione particolare dei fatti e la pone su un piedistallo, come una scultura classica che rappresenti per sempre questa visione spietata dell'amore. Sembra che Jonny sia lì a suonare dal vivo, per noi, accordando di minuto in minuto il suo picchiettare sul pianoforte (e le nuvole sonore della sua orchestra) alla cifra emotiva delle scene. La musica è quasi onnipresente in quest'opera, e non resta mai in secondo piano. È una presenza insistente, ed estasiante, che eleva tutto quanto e manda un messaggio preciso: questa è arte, in primo luogo, è una rappresentazione che non si esaurisce in quanto si sta vedendo, ma porta con sé tante filigrane, che tu spettatore devi sforzarti di cogliere. Non ti fermare all'immediatezza della visione.

8/10

Carico i commenti... con calma