Nel recensire la trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson mi piace mettere in evidenza gli aspetti a mio modo di vedere più significativi della materia sottostante al film. In questa operazione non è possibile prescindere dal romanzo di Tolkien di cui la trilogia cinematografica è un riflesso fedele (peraltro, a mio avviso, ottimamente realizzato) seppure il regista e gli sceneggiatori si siano presi qualche libertà rispetto al testo di Tolkien. Nella presente recensione non mi interessa quindi dedicarmi ad aspetti tecnici dei tre film che compongono la trilogia, oppure alle differenze esistenti fra la trama del romanzo e quella dei film, poiché su questo è già stato scritto molto da altri. Mi interessa invece porre la mia attenzione sull'elemento che ritengo più affascinante del Signore degli Anelli (del romanzo e di conseguenza del film): ovvero sul come questa "fiaba" così complessa e colma di personaggi e di strane creature, ricca di sotto-trame che scorrono parallelamente a quella principale e che con essa si intrecciano, alla fine sia una profonda riflessione sulla natura dell'uomo, e sulla sua storia.  Non è mia intenzione addentrarmi troppo nella cosmogonia Tolkieniana, ma qualche coordinata a chi non ha letto i libri di Tolkien devo pure darla. Innanzitutto, Tolkien suddivide Arda (il suo universo immaginario) in due zone nettamente separate fra loro dal grande mare di Belegaer: le terre ad Ovest e le terre ad Est: decide di ambientare tutte le storie principali che caratterizzano la Terza Era incentrandole nello scenario della Terra di Mezzo. Durante gli anni che compongono la Terza Era della cronologia di Arda gli eventi più importanti ruotano attorno alla razza degli Uomini; e la Terra di Mezzo rappresenta il naturale teatro in cui gli Uomini si muovono, caratterizzati come sono dal loro essere "terreni", "materiali", "pesanti" (proprio nel senso della gravità) poco interessati a tutte quelle attività tipiche degli Elfi che invece sono caratterizzati dalla "levità", dalla "leggerezza" come il loro modo di camminare bene esemplifica: la poesia, l'amore per l'atto artistico e creativo, la ricerca della perfezione, l'amore e il rispetto per il mondo naturale.  La storia degli Uomini di Numenor durante la Seconda Era e della Terra di Mezzo durante la Terza è una potente metafora della storia dell'umanità. Non a caso infatti la Terza Era è anche quella in cui gli Elfi abbandonano definitivamente la Terra di Mezzo, non riconoscendo più quei luoghi come adatti alla loro natura, e preferendo quindi raggiungere i Valar, loro creatori in Valinor, le "Terre Imperiture" ad Ovest. Nella metafora di Tolkien sembra che gli Elfi siano come gli uomini vorrebbero essere e in realtà gli Elfi sono ciò che potenzialmente potrebbero essere gli Uomini se solo lo volessero veramente. E sebbene gli Uomini abbiano molte potenzialità come dimostrano con l'iniziale ascesa e splendore dei loro regni di Arnor (a nord) e di Gondor (a sud), a causa della loro natura che finisce per condurli verso una profonda decadenza passando per guerre e divisioni, dimostrano di essere facile preda di illusioni ingannatrici, intrappolati nelle reti di inganno intessute, sotto varie forme, dall' "oscuro signore" o da suoi emissari.Potrebbe sembrare, ad una prima lettura, che l'origine di tutti i problemi della Terra di Mezzo e degli Uomini sia Sauron l'oscuro signore, ovvero una rappresentazione metaforica del male assoluto. In realtà a mio modo di vedere Sauron non è altro che una sublimazione dell'altra faccia di un'unica medaglia.   Tenterò di dare una spiegazione di questo concetto che potrebbe risultare strano per molti. Come in tutte le opere di stampo classico fiabesco o immaginario anche Tolkien assume che le forze motrici dell'universo siano la luce e l'ombra: ovvero il bene e il male. Dal loro continuo moto conflittuale scaturiscono tutte le dinamiche che decretano i movimenti delle varie pedine sulla scacchiera. Peraltro, come tutti noi sappiamo, per averlo provato nelle nostre vite, non sarebbe possibile provare la paura e l'odio se nel nostro mondo esistessero soltanto il bene e l'amore. Ora, per un nostro approccio culturale tendiamo a semplificare le cose, e quindi tendiamo a crearci una percezione tesa a separare in modo netto il bene dal male. Tale approccio trova le sue fondamenta in tutte le religioni: ad esempio nella tradizione interpretativa più ortodossa della Bibbia (quella cristiano-cattolica) la dicotomia fra Bene e Male viene rappresentata attraverso la contrapposizione fra Dio e Lucifero. In altre parole consideriamo Dio come qualcosa che ci ha generato e che quindi è intimamente legato alla nostra natura (è la forza che dà vita e amore) mentre consideriamo Lucifero come qualcosa di esogeno a noi ovvero che ci arriva dall'esterno attraverso le tentazioni che provocano la corruzione di qualcosa che in sé sarebbe invece perfetto. In altri termini, il compiere "cattive azioni" è sempre giustificabile per motivi esterni a noi: taciamo la verità perché ci fa comodo farlo e alla fine crediamo anche che sia meglio per tutti, ci creiamo degli schemi mentali per auto-giustificarsi delle nostre debolezze o paure. Applichiamo giornalmente la legge del taglione "occhio per occhio dente per dente" (ben presente nel "vecchio testamento" della Bibbia) e fingiamo ipocritamente di essere sempre pronti a "porgere l'altra guancia". Tutto questo porta a pensare che a ben vedere l'agire umano non abbia come matrice due distinte forze contrapposte che creano le dinamiche della storia, ma che vi sia soltanto una sola unica e inscindibile forza che muove tutte le nostre azioni, ovvero la lotta per la sopravvivenza in prima istanza ed il miglioramento costante della propria condizione in seconda.   Come la nostra storia dimostra è nella natura dell'uomo di non accontentarsi degli obiettivi raggiunti, ma di voler tendere al raggiungimento di una condizione di vita sempre migliore di quella attuale: ed è proprio questa caratteristica che è precipua all'uomo e lo rende differente dagli altri animali, in quanto l'unica spinta che muove le azioni degli altri animali è esclusivamente la sopravvivenza. Del resto qui Tolkien è debitore del mito biblico del "superamento dei limiti" imposti da Dio all'uomo e della conseguente cacciata dall'Eden. Seguendo questo approccio che dà una rappresentazione dell'uomo come un'entità che ha in sé un'unica spinta, che a volte si manifesta in buone azioni a volte in cattive azioni, si risolve completamente la dicotomia fra Bene e Male, fra luce e oscurità, percependole entrambe come le due facce della stessa medaglia. Da questo continuum da questa unica forza primale e viscerale scaturiscono tutte le dinamiche. Anche nell'opera tolkieniana la dicotomia, che a tutta prima potrebbe contrapporre Sauron (o il suo antico Signore Morgoth) agli spiriti "buoni" dei Popoli Liberi della Terra di Mezzo, a ben vedere si risolve creando un unicum che si sostanzia nel co-agire dei Popoli Liberi in parallelo a Sauron (Isildur non distrugge l'Unico Anello perché vuole servirsene per i suoi scopi di grandezza). L'Oscuro avrebbe potuto fare ben poco se gli Uomini non avessero fatto in modo che il suo spirito potesse perdurare (come in ere precedenti fecero gli Elfi peraltro): certo a volte in modo indiretto e involontario, ma come sembra suggerirci Tolkien, l'uomo, proprio dando libero sfogo alla propria natura, nello stesso momento in cui si adopera per raggiungere obiettivi ambiziosi, magari anche spinto da buoni propositi, finisce, in ultima analisi, per apportare distruzione. Ed è soprattutto questa la chiave di volta che permette di dare un'interpretazione, a mio parere, strutturale dell'intera metafora tolkieniana: le differenze sostanziali che possono rintracciarsi fra le varie razze e fra i vari personaggi principali si giocano cioè proprio su questo piano. Vi sono razze e personaggi che, senza necessariamente essere schierati nel proprio agire a favore del Bene o del Male, con le loro azioni mostrano di non avere rispetto per tutto ciò che è altro da sé e in modo particolare del mondo naturale (Eä: il mondo creato dai Valar ovvero il supremo e più elevato atto di creazione), mentre ve ne sono altri che si riconoscono come parte di una totalità che prescinde la propria singolarità e nelle loro azioni pongono enorme attenzione a non forzare il "naturale" corso degli eventi e ad agire sempre nel rispetto dell'altro da sé, avendo addirittura una venerazione amorevole per Eä.   Tanto per fare qualche esempio gli Elfi e gli Uomini, come pure alcuni Maia (spiriti di alto lignaggio, inferiori solo ai Valar) come ad esempio Saruman, il Balrog di Moria e lo stesso Sauron con le loro azioni, al di là delle proprie finalità, hanno comunque compiuto atti terribili di violenza ai danni di Eä. Teniamo presente, ad esempio, che è sicuramente vero che gli Elfi rappresentano quanto di più vicino possa esservi agli spiriti superiori dei Valar, ma è altrettanto vero che anche gli Elfi nella loro incessante ricerca della creazione del "bello" e della "perfezione", sebbene spinti dalla propria buona fede, hanno spesso finito per agevolare le trame del "Nemico" ed hanno aperto le porte alla corruzione di Eä. A ben vedere dunque, gli Elfi rappresentano soltanto una "bella copia" degli Uomini: credo che per Tolkien il peggiore effetto portato con sé dal "peccato originale" (ovvero dal voler superare i propri limiti), la vera condanna di tutte le razze della Terra di Mezzo, sia la corruzione del mondo naturale che è perfetto così come è e che ha bisogno di un immenso rispetto da parte di coloro che lo abitano. Simile sorte è quella dei Nani che spinti dall'incessante accumulo di ricchezze hanno principalmente provocato ferite sulla Terra di Mezzo, scavando in profondità e non occupandosi di altro che della propria sorte, disinteressandosi completamente degli eventi del mondo in superficie. In questo quadro di una moltitudine di razze impegnate a predominare chi per un verso chi per un altro mosse semplicemente dal desiderio irrefrenabile di superare i propri limiti, spiccano gli umili e piccoli Hobbit. Una razza che è ben poco interessata ad espandere i propri domini al di là delle terre della propria amatissima Contea: il loro amore viscerale per la madre terra e per tutto ciò che Eä ha da offrire è percepito come un continuo dono da coltivare con cura e amore e di cui godere appieno. Agli Hobbit interessa ben poco di ciò che accade al di fuori dei loro confini, impegnati come sono nel curare e coltivare la terra che grazie alle loro cure è sempre rigogliosa e ubertosa. Non è un caso che Gandalf abbia una passione amorevole per gli Hobbit e non è un caso che Tolkien affidi proprio a Frodo il compito di resistere alla corruzione insita nell'artefatto più potente mai costruito sulla Terra di Mezzo. Soltanto un Hobbit dal cuore innocente come Frodo, aiutato dal suo fedelissimo amico Sam, avrebbe potuto portare su di sé il fardello della corruzione e della tentazione del potere. L'innocenza e l'ingenuità degli Hobbit si tramuta da apparente debolezza in fattore decisivo di infinita forza per sconfiggere la grande sapienza corrotta e portatrice di false verità (l'alchimia e la stregoneria di Sauron e del suo servo Saruman). Tanto era la voglia di Sauron e di Saruman nel volere imporre con violenza la loro volontà sul mondo (incessantemente animati dall'anelito di superare i limiti imposti loro dalla Natura), quanto intensa era la spinta di Frodo e di Sam nel volere semplicemente tornare alla loro amata Contea. E mentre Aragorn e gli altri membri della Compagnia dell'Anello in quei momenti furono costretti a sostenere epici scontri in cui le loro abilità di guerrieri venivano duramente messe alla prova, Frodo era costretto ad affrontare una lotta ben più dura: combattere contro se stesso, ovvero contro l'invisibile forza di corruzione instillata da Sauron nell'Anello. Il viaggio di Frodo rappresenta la reale battaglia dell'uomo che si oppone alla propria intima natura di superare i propri limiti: una battaglia che, a quanto sembra suggerirci Tolkien, egli non ha speranza di vincere perché, di fatto, Frodo al momento decisivo, in cui può finalmente prendere la decisione di gettare l'Anello nella bocca del vulcano, non riesce ad opporre la sua volontà a quella dell'Anello (e quindi ad opporsi alla propria presunzione) e la missione viene portata a termine soltanto a causa del furto dell'Anello da parte di Gollum e della sua fortuita caduta nel baratro del Monte Fato.  Frodo con la sua drammatica esperienza ha dovuto pagare uno scotto altissimo la perdita della propria ingenuità, della propria innocenza, della propria "verginità", ed è per questo che deciderà di abbandonare la sua Contea, salpando con l'ultima nave diretta verso le Terre Imperiture assieme a Bilbo agli Elfi e a Gandalf. Nella visione del mondo tolkieniana, il destino toccato a Frodo, che fu poi lo stesso toccato ad Isildur a suo tempo, riflette ciò che può accadere agli uomini che lasciano che le proprie intime potenzialità (come gli impulsi a superare sé stessi, l'egoismo, lo stimolo ad esercitare potere) sfuggano al loro controllo o si sbilancino. Una vita, quella degli uomini, che può lasciarsi sopraffare dagli stati tormentati della psiche e da tutte quelle situazioni che possono apparire senza via d'uscita, schiacciata dal fardello di forze vincolanti, di legami di dipendenza, dalle catene che legano l'uomo alle sue più basse espressioni: la viltà, la meschinità, l'ignoranza, la volgarità. Eppure, riferendosi al mito biblico di Lucifero, l'angelo decaduto, Tolkien a mio parere ci ricorda che l'origine di questi impulsi non è malvagia di per sé, ma lo diventa nell'uso che se ne fa. Se controllata, la forza di queste spinte può essere positiva, una sorgente di energia per sviluppi più edificanti.

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