• Cazzo ti avevo detto di resistere! Ma non potevi trattenerti? Sei come mio figlio, appena ripartito dall’Astrogrill: “papà mi scappa”. Echecazz …
  • Ma che ci posso fare? Oramai è fatta!
  • Sì sì è fatta. Vedi il casino che è venuto fuori, tutti a pensare a chissà quali cause per quei decano, undecano e dodecano: le più grandi molecole di composti organici scoperte finora su Marte, e in verità è solo che lì cacarono!

Apro gli occhi e, in penombra, vedo i due miei “amici” alieni che sbraitano e quasi vengono alle micromani in evidente stato di alterazione e, questa volta, non da alcol ma da incazzatura! Poiché è notte fonda cerco di intervenire, prima che qualcuno suoni alla porta ma è tutto inutile; nemmeno le classiche birrette che cerco di allungargli ristabiliscono la pace. C’è solo un modo che io conosco per portare serenità e che funziona sempre: un bel disco di reggae! Se funziona con i cani (giuro di aver letto un articolo di uno studio scientifico che prova ciò) funzionerà anche con queste due bestiole spaziali! Sarà perché il reggae non è mai stato solo un genere musicale ma un’identificazione totale tra uomo e dio, tra popolo e religione; è una visione del mondo e la musica è il messaggio. Ci sono, però, due grandi equivoci che ruotano intorno a questo genere musicale:

  1. ci si dimentica troppo spesso della notevole influenza che ha avuto nella musica pop (in senso generale), al pari di altri generi black quali il blues, il funky e il soul (ancora di più se si pensa a tutti i generi pre e post reggae di provenienza giamaicana: dal calypso allo ska fino al dub);
  2. l’associazione diretta tra il consumo di droga (anche se solo marijuana) ed il mondo del reggae.

Peraltro, il vinile che scelgo per ristabilire un po’ di serenità porta un titolo che alimenta l’equivoco numero 2: “Legalize It” di Peter Tosh, insieme al penultimo dei Wailers (“Catch A Fire”) ed al primo di Bob Marley & The Wailers (“Natty Dread”), i miei preferiti del genere nato in Giamaica e che ha conquistato il mondo a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Prima del 1976, Winston McIntosh (Peter Tosh) non era conosciuto quanto lo è oggi, sebbene fosse una delle principali forze creative dei Wailers, destino condiviso con gli altri membri di talento della band oscurati dal frontman Bob Marley e quando “Legalize It” fu pubblicato, Marley era già diventato una superstar internazionale. In risposta al successo di Marley e alla proposta disponibile di “Natty Dread”, Tosh pubblicò il provocatorio album di debutto con tanto di foto-ritratto in copertina mentre fuma ganja in un campo di marijuana. Sì perché Peter era un rivoluzionario vero, uno che diceva sempre quello che pensava e non aveva paura di denunciare le ingiustizie della società giamaicana. La traccia che dà il titolo all'album chiedeva la legalizzazione della marijuana in Giamaica e non lo sballo libero dei ragazzi nel mondo. Tosh era fermamente convinto che la marijuana fosse la guarigione per la nazione, pensava che l'erba desse alla povera gente un breve sollievo dai problemi della vita quotidiana e riteneva fosse per questo che il governo l'aveva dichiarata illegale. La canzone causò una tale controversia che fu vietata in Giamaica. Di conseguenza Peter, il più attivista tra i rastafariani, iniziò ad esser visto come un fuorilegge, condizione che lo accompagnò fino alla drammatica fine dei suoi giorni e più di qualcuno giura che dietro la mano del balordo omicida ci fosse la regia dello “shitstem” giamaicano, definizione dello stesso Tosh per descrivere il degrado della classe politica di Kingston.

Oltre a chiedere la legalizzazione dell'erba e anche con una certa ironia (“He maketh the grass to grow for animals. Jah make the herb for man”), nelle nove tracce che compongono l'opera Peter mescola la musica ad infuocate accuse giungendo alla realizzazione di un classico album reggae: una combinazione perfetta di brani orecchiabili e vivaci e una varietà di ballate e melodie più lente. Sebbene ogni traccia sia piuttosto semplice, la voce e la poetica nella scrittura non siano al livello di quelle di Marley, “Legalize It” è inspiegabilmente piacevole.

Come spiegare la meravigliosa dimostrazione di orecchiabilità di “Burial”? Una canzone così incantevole, basata su un ritmo solido comune alla maggior parte delle canzoni reggae ma che consente a Tosh di ondeggiare con la melodia mantenendone comunque la coerenza. Oppure la magia della traccia finto allegra “Whatcha Gonna Do” che contiene tutto quello che si può chiedere a una reggae song: allegria, testo ironico e graffiante accompagnato da una ritmica entusiasmante il cui testo racconta della brutalità della polizia e di una famiglia che viene arrestata per possesso di marijuana. Sebbene le canzoni siano tutte reggae nel profondo, contengono anche echi di altri generi in parte per la sua genesi con registrazioni tra Giamaica e USA, in parte grazie ai musicisti che Tosh ha radunato attorno a sé tra i quali il chitarrista blues Donald Kinsey che cambia completamente l'atmosfera in “No Sympathy” con alcuni riff rapidi in contrappunto alla chitarra reggae per giungere ad una versione molto più sentita e carica di sconforto rispetto alla versione dei Wailers pubblicata anni prima. E poi “Why Must I Cry” dal sapore funk che traspare dal suono del basso reso qui più profondo, una specie di canzone pessimista cantata in modo depressivo ma con un accompagnamento musicale raggiante e contagioso.

Quando mi alzo per girare il vinile mi accorgo che il più svelto degli alieni sta girando … un joint! Beh caro, non potevi scegliere momento migliore: parte la distesa spaziale di “Igziabeher (Let Jah Be Praised)” la più inebriante delle tracce grazie all'uso del sintetizzatore, forse il primo mai utilizzato nella musica reggae. Di questa traccia ho un ricordo personale: mia madre in più dormi che veglia durante un viaggio in auto dopo una giornata a mare alza a stento una palpebra e dice: “che bella musica” per poi riprendere con il più. La graziosa Ketchy Shuby, un brano allegro e ancora una volta una canzone che ti trasporta sotto una palma, conduce alla vera chicca della raccolta: “Till Your Well Runs Dry”. Sembra che l’ispirazione per questa traccia derivi da “You Don’t Miss Your Water”, singolo di debutto di William Bell, famoso per le sue collaborazioni con Booker T. Jones. I Wailers registrarono nel 1965 “When The Well Runs Dry” cambiando notevolmente l’opera di Bell e fecero propria la composizione aggiungendo l’arrangiamento ska, tipico delle loro produzioni di quel periodo. Sarà la versione di Tosh a rendere finalmente giustizia alla bellezza di questo pezzo trasformato in ballata con sorprendente ritornello reggae e impreziosita dai ricami di Kinsey.

Quando parte l’ultima traccia, “Brand New Second Hand”, ho la prova che il reggae funziona anche sui litigiosi visitatori spaziali che vedo dondolarsi dolcemente sul tappeto seguendo il ritmo di quest’ultimo gioiellino di un opera che, per me, è la migliore espressione del musicista giamaicano: il suo estro creativo, la forte personalità come vocalist unita all’essere un buon tastierista e chitarrista ritmico rendono speciale quest’opera grazie anche al contributo di due icone del genere: Rita Marley per i cori ed il leggendario Robbie Shakespeare per basso e armonica.

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