Compositore dalle molte anime, Pietro Mascagni aveva un feeling speciale, che purtroppo non sono in molti a conoscere, con il romanticismo. Non c'è infatti "solo" il sublime Guglielmo Ratcliff tra le opere romantiche del maestro livornese, sull'altra faccia della medaglia troviamo, appunto, Isabeau. Confrontare punto per punto questi due lavori ha senso perchè si tratta di due opere così antitetiche in tutto a parte la definizione generale che un raffronto risulta estremamente affascinante, ed aiuta a capire meglio l'evoluzione stilistica dello stesso Mascagni. Innanzittutto, si tratta di due modi completamente opposti di intendere il romanticismo: tanto "sturm und drang", passionale, al calor bianco è Ratcliff quanto delicata, simbolista e idealista è Isabeau. Una è carica di entusiasmo giovanile, l'altra di finezze stilistiche da compositore maturo, una immediata, che sfrutta al massimo le forme chiuse, l'altra fluida, strutturata come un corpo unico. Il contrasto tra Guglielmo e Folco, il protagonista maschile di Isabeau, poi, non potrebbe essere più netto e stridente, in termini di connotazione psicologica e stile canoro richiesto.

Uno dei punti di forza di Isabeau è sicuramente il raffinatissimo libretto firmato Luigi Illica che, partendo dalla celebre leggenda britannica di Lady Godiva, dà vita a una vicenda profondamente poetica e simbolica, senza però rinunciare alla caratterizzazione umana dei due protagonisti, molto ben definiti psicologicamente e, specialmente nel caso di Folco, in netta antitesi rispetto a certi clichè teatrali; notevole anche l'utilizzo di un lessico volutamente arcaico, che sottolinea ulteriormente la collocazione temporale persa tra le nebbie del passato, nella vaga e lontana epoca delle leggende. Entrambi i protagonisti, adolescenti, hanno personalità vagamente androgine, da una parte Isabeau, ferma nel proprio ideale di castità che può benissimo essere interpretatato come un'affermazione della propria individualità, una ribellione al ruolo che, in quanto donna e figlia di re, le sarebbe imposto dalla ragione di stato; la sua fermezza e orgogliosa dignità la rendono un personaggio non meno statuario di Turandot o Brunhilde. Dimostrazione? Nel secondo atto, quello della celebre cavalcata in desabillè, impostale dal padre come punizione per aver rifiutato tutti i pretendenti alla sua mano, non protesta, accetta l'umiliazione senza battere ciglio e non canta nemmeno, è semplicemente una presenza scenica, potentissima, capace di smuovere l'adulazione sicofantica e codarda del popolino e l'amore puro e ardente di Folco. Folco, un ragazzino di umili origini ma idealista, sognatore, poetico che, proprio come il falco che offre a Isabeau come dono, vola alto, più alto delle convenzioni sociali, non ha paura di ammirare Isabeau in tutto il suo splendore, scagliandosi contro la viltà mascherata da devozione della plebe e pagandone volentieri il prezzo; questo eroismo ingenuo e candido lo distingue enormemente dai vari Turiddu, Guglielmo Ratcliff e Osaka, protagonisti mascagniani animati da passioni più o meno torbide. Alla fine i due amanti trovano nella morte quella felicità e quel trionfo che la ragion di stato gli nega in vita; questo è un evidente punto di contatto con l'Andrea Chenier, anch'esso con libretto firmato da Illica, seppur con personaggi, ambientazione e tematiche estremamente differenti.

Chi si approccia ad Isabeau aspettandosi grandi arie ed epici passaggi strumentali parte già con il piede sbagliato, personalmente, sono convinto che con Isabeau l'obbiettivo primario di Mascagni non fosse il successo ma una piena, completa soddisfazione artistica: quest'opera è un mosaico di scene, di momenti, disposti armonicamente a formare un'immagine molto dettagliata, ma questa immagine è vista attraverso gli occhi incantati e sfuggevoli del sogno. Semplicemente, non è un'opera fatta per strappare facili consensi, eppure abbonda di momenti estremamente suggestivi ed evocativi, di melodie tra le più belle mai scritte da Mascagni; l'iniziale annuncio dell'araldo, accompagnato da squilli di tromba, l'incantevole assolo di violino e il bucolico corale che annunciano l'entrata in scena di Isabeau, Folco che richiama il suo alter ego animale, con la musica che di punto in bianco cambia, diventa una cavalcata vivace, tintinnante, epica. Tutto questo solo nel primo atto, poi quegli echi marziali e malevoli nel coro con cui il popolo minaccia il linciaggio a chiunque osi ammirare Isabeau, e Folco che se ne frega, lo sfida apertamente con un'aria mutevole, dinamica, piena di variazioni, in cui passa rapidamente dall'indignazione alla gioiosa celebrazione della bellezza della sua Isabeau; e ancora la cantilena a due voci, accompagnata dall'organo che apre il terzo atto, che vola altissimo in quel finale dilatato, straripante di emozione, intriso dell'ineffabile mistero della morte e dell'amore.

Per farsi un'idea generale dello spirito di quest'opera forse basta semplicemente ascoltare l'interludio sinfonico del secondo atto, che fà da sottofondo alla cavalcata, e confrontarlo con l'intermezzo della Cavalleria Rusticana e con il Sogno del Guglielmo Ratcliff: l'impatto immediato non è altrettanto vivido ma si possono percepire, oltre ad un velo di crepuscolare malinconia tipicamente mascagniano, una maestosità e un mutevole dinamismo che si riflettono su tutta l'opera, che passa dalle sonorità evocativamente medievali, spesso dolcissime, talvolta perfino rilassanti del primo atto a quell'esplosione emotiva del terzo, attraverso un climax ascendente perfettamente costruito. Un nettissimo passo avanti rispetto a Iris che, seppur con molte critiche riscosse all'epoca molti più consensi di pubblico e, cari miei lettori, concedetemelo: quanto dozzinale, melensa, affettata e ruffianotta appare al confronto la tanto decantata Boheme, pilastro inamovibile del repertorio standard. La "mia" Isabeau è stata registrata ad Utrecht nel 1982, in un teatro di provincia, con un cast interamente olandese, privo di grandi nomi ma che ha rende onore alla meravigliosa musica del maestro Mascagni assai meglio di quanto potrebbero ipoteticamente fare certe presunte superstar della lirica odierna, facendosi ampiamente perdonare anche certi accenti e dizioni non proprio impeccabili (soprattutto da parte di Adriaan Van Limpt, l'ottimo tenore che interpreta Folco, che riesce comunque ad immedesimarsi perfettamente nella poetica e nell'entusiasmo fanciullesco del personaggio). L'ultima registrazione italiana (peraltro una selezione...) disponibile in commercio risale al 1962, interpreti Marcella Pobbe e Pier Miranda Ferraro. Triste, molto triste.

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