Pillow presenta una pasta sonica al sapor di bordoni, siano essi layer chitarristici, fisarmoniche o sovraincisioni vocali, ricordando quella scena nordeuropea che fece sussultare la stampa specializzata qualche anno fa. Lo fa con l’ abilità di un pubblicitario, alimentando il furore creativo di citazioni, suggestioni e subdoli effetti priming connessi alla voce di Thom Yorke, ai Mùm ed al fantastico frociazzo che mormora nei Sigur Ròs.
Così facendo Pillow, come Coca Cola ed i suoi inserti subliminali, sa che il popolo indie ben disposto apprezzerà e sentirà il bisogno di dissetarsi anche se sottoposto a frazioni musicali misurabili in millisecondi. Sa anche trattare con quelli come me, gente che beve quotidianamente analcolici mori sentendo il bisogno di esternare la differente esperienza insita in ogni sorso, dribblando il mio (presunto) occhio critico e lasciandomi inconsciamente con un sorrisetto di approvazione subito al primo ascolto.
Pillow è un musicista esperto, uno che conosce bene i suoi gusti, quelli della fascia di mercato che va a coprire, nonchè la psicoacustica. Nel suo disco non c’ è molta sperimentazione, credo che i suoi pezzi nascano con l’idea di suonare così fin dal principio e, fino a quando farà dischi come questo, non posso che applaudire. Moderatamente, ma con compiacimento.
Manca certamente il randomico colpo di genio, quel quid che mi fa considerare il lavoro di Richard D. James pietra di paragone pur dopo aver ascoltato “ Classics” , ma tutto sommato forse è meglio così, specialmente in un genere il cui compito non è né quello di esprimere la visceralità emotiva romantica né tantomeno la fredda analiticità.
Pillow parla con parole quotidiane, quelle del panettiere di fiducia, dell’ operatore ecologico e del migliore amico, parole vicine alla normalità di tutti quelli che, almeno una volta nella vita, una mattina hanno desiderato restare nel letto caldo, abbracciati a qualcuno, guardando l’ ennesima replica di Casa Keaton su un canale locale.
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