Il mio amore per i Deviants si è protratto per tutte le incarnazioni successive, la più succosa delle quali è stata l'avventura Pink Fairies, che in origine prevedeva l'intera formazione deviata del terzo album con l'aggiunta dell'individuo più strano, strafatto e avvolto in un alone di leggenda di tutto l'universo underground inglese degli anni settanta: Steve Peregrin Took. Ma i gruppi di quel periodo non erano come quelli di oggigiorno, dove i componenti sembrano impiegati con il posto fisso che timbrano il cartellino per guadagnarsi la succosa pagnotta quotidiana. Troppo fricchettoni per durare seriamente in un progetto musicale, soprattutto teste calde e irrequiete come quelle di Steve e di Mick Farren. Così con un organico stabile solamente in Russel Hunter alla batteria e Duncan Sanderson al basso,  mentre il chitarrista Paul Rudolph andava e veniva dagli Hawkwind, i Pink Fairies produssero tre album tra il 1970 e il 1973 che rappresentano il punto di congiunzione britannico tra quello che si potrebbe chiamare trip rock (hard rock solcato da ramificazioni psichedeliche) e il punk che sarebbe esploso qualche anno dopo.

Il concerto al Roundhouse del 1975 rappresenta l'addio del gruppo ai suoi fedeli con i tre membri fondatori più il chitarrista Larry Wallis dai Motorhead e il mitico socio onorario Twink alla batteria: una performance di fuoco. Come di fuoco era stato l'ultimo disco in studio "Kings of Oblivion", roba del 1973 ma che è avanti di almeno quattro anni rispetto a quello che succederà dopo. E così uno dei maiali rosa svolazzanti su quella copertina ora indossa un tutù e calca le assi di legno del vecchio Roundhouse di Camden Town ...mi domando come mai non siano andate a fuoco a causa delle scintille roventi che scaturivano dagli strumenti dei cinque!

L'apertura è affidata alla torrida  "City Kids", un riff tellurico che ricorda gli Steppenwolf ma un cantato straccione che gente come Strummer avrebbe portato all'attenzione mondiale qualche anno dopo.  Ed è subito rock duro e violento, venato da contaminazioni psichedeliche con lunghe tirate di chitarra solista che portano all'esaltazione l'ascoltatore. No, decisamente non è un disco da gustare  comodamente sdraiati sul divano, è praticamente impossibile non mettersi a zompettare per la stanza: la lunga cover di "Waiting For The Man" è una molotov hard tagliata con iniezioni di veleno punk e la chitarra è sempre tirata con accenti di distorsione metallica.

La t-shirt è ormai fracida di sudore e l'omaggio al classico r&b dei sixties "Lucille" trasformato in una cavalcata elettrica deve aver fatto impazzire il pubblico nel pogo. Ma non c'é un attimo di tregua perché i cinque scatenano ancora le danze più malvagie con una versione ossessivamente hard del loro classico "Uncle Harry's Last Freakout". La potenza ritmica delle due batterie, il basso pulsante di Sanderson, la giostra allucinogena messa in piedi dalle due chitarre con la solista di Wallis prodiga d'effluvi metallici da altoforno siderurgico, confezionano una pillola colorata in grado di riportarci indietro nel tempo sul prato di uno dei primi festival hippies di Glastonbury.

Quando il rock significava emozione viscerale.

 

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