“In questa sinfonia, lo dico senza esagerare, ho infuso tutta la mia anima”.
L’ultima partitura sinfonica Tchaikovsky la pensò e la scrisse nel 1893. Si trattava della sua sesta sinfonia e sarebbe stata la sua opera estrema, in quanto l’autore russo morì poco dopo suicidandosi tragicamente. È un’opera questa dal fortissimo valore simbolico, e a riguardo lo stesso Tchaikovsky disse, durante la composizione: “durante i miei viaggi mi è balenato il pensiero di un’altra sinfonia, questa volta a programma; un programma che resterebbe un segreto per tutti. Segreto che sfido a indovinare. Questo programma è così intensamente personale che spesso durante i miei viaggi, componendola mentalmente, ho pianto molto”.
Ciò che egli nascondeva era il fatto che questa sinfonia rappresenta nel realismo più totale l’animo del musicista, distrutto da tutti i suoi tormenti e dalla sua depressione misantropica. Ed è proprio questa la caratteristica che rende Tchaikovsky uno dei più grandi compositori, e cioè il suo riuscire a descrivere con la potenza del linguaggio romantico i sentimenti umani, terribilmente umani, con un realismo nuovo per un’arte così astratta come la musica. Lo aveva fatto in “Romeo e Giulietta”, con risultati espressivi senza precedenti che coglievano in pieno il dramma di un amore impossibile. Lo aveva fatto in pezzi come l’Ouverture 1812, nel quale l’attaccamento per la sua Russia era stato colorato da risvolti patriottici per la celebrazione della vittoria contro la Francia, avvenuta a inizio secolo. Ma questa sua ultima opera supera tutte le altre, è la perfetta relazione artistica delle insicurezze di un uomo, della sua debolezza, della fragilità nei rapporti umani. Nell’ultima sinfonia Tchaikovsky riesce a rendere eterne le sue lacrime, grazie ad armonie struggenti perfettamente rese nel costrutto sinfonico, del quale ormai era maestro indiscusso, al pari di Beethoven. Ma se il tedesco nella sua Nona era riuscito ad elevarsi al di sopra delle sofferenze personali, celebrando la gioia della vita e lo slancio titanico contro le inezie della natura, l’ultimo Tchaikovsky si pone in maniera antitetica, rispetto al romanticismo titanico, osservando sofferente il dramma della vita che se ne va, distrutta dagli eventi luttuosi, come in una “Ginestra” Leopardiana di cui rimane solo il pessimismo agonistico.
Il primo movimento della sinfonia introduce la tragicità, con alcuni tra gli arrangiamenti più belli di tutta la musica classica. Il clima che si respira è di lugubre cupezza, ma una cupezza dal gusto estetico di inestimabile valore, quasi come si trattasse di uno dei quei virtuosi quadri Caravaggeschi, immersi nella penombra. Dopo l’introduzione, sempre nel primo movimento, si assiste ad un graduale aumento di volume, nel quale la strumentazione si infervora e la partitura acquista un potenza rara. Infatti verso il nono minuto, dopo la ripetizione sottovoce del tema principale, esplode un ostinato in cui archi, ottoni e legni si intrecciano, disegnando una tempesta emotiva, tecnicamente avanti rispetto a tutto l’ottocento orchestrale (Tchaikovsky avrebbe influenzato tutta la successiva scuola russa e francese, da Stravinsky a Prokofiev, da Ravel a Debussy, fino al nostrano Ottorino Respighi). Questo frangente, come anche altri, è per me quasi impossibile descriverlo a parole: riesce a coniugare potenza, sofferenza e ed eleganza. Capolavoro.
Sopraggiunta la calma e conclusosi il primo movimento, il secondo è un “allegro con grazia”, affresco di una sorridente malinconia che acquista una leggerezza che lo differenzia dall’incipit, rendendo l’opera più varia. Si tratta di una specie di valzer, col tempo di 5/4 che a tratti ha uno slancio quasi vitale, a tratti riprende e trascina invece le precedenti melodie dolorose. E seguendo questo andazzo il terzo movimento si fa ancora più veloce, a tratti funambolico, ed assume le sembianze di un balletto, uno dei registri prediletti dell’autore russo. Si tratta dell’ultimo slancio vitale dell’opera, una folle danza con poche pause, dal ritmo coinvolgente. Qui il costrutto formale si fa denso e si riempie di scale a chiocciola di flauti, ostinati di archi, in un crescendo creativo che rende ancora più imprevedibile il cambio di umore che farà terminare l’opera con il quarto e ultimo movimento. In quest’epitaffio si spegne l’ultimo spiraglio di luce e ritorna l’atmosfera lugubre e fatalista del primo movimento, ancora più accentuata e resa senza soluzione di continuità. L’orchestrazione dell’ultimo pezzo rappresenta la perfezione, nella quale l’intensità armonica emotiva tocca dei picchi inauditi. Una sola parola può descrivere tutto ciò: introspezione. Infatti l’orchestra sembra parlare sottovoce in quest’ultimo movimento, nel quale anche le pause ed i silenzi acquistano una loro validità musicale, dal significato profondissimo. Tchaikovsky si sente sempre più solo, a dispetto della baraonda di persone avvicinate dal suo crescente successo e della fama che ormai lo stava rendendo già da allora uno dei nomi più citati nel repertorio orchestrale di tutta Europa. “Sono stanco fino allo sfinimento per tutti questi interminabili festeggiamenti. Adesso ho assoluto bisogno di un periodo di solitudine”. Man mano che l’opera si avvia alla conclusione il volume si abbassa lentamente e questa malinconia ti conquista, ti prende il cuore, te lo strappa, ti fa rivivere la tensione dell’artista, la sua impossibilità di amare la vita se non tramite le sue opere d’arte. Il finale della sesta è uno dei più assurdi e strani nella storia delle sinfonie. Ha una conclusione inaspettata. Se ne va mestamente, senza celebrazioni, così in silenzio che proprio il silenzio sembra la vera conclusione dell’opera, non l’ultima nota esalata dagli archi. Non era mai successo di sentire una conclusione del genere, nel repertorio sinfonico precedente. Mai.
Tchaikovsky racconta le impressioni dopo la prima rappresentazione dell’opera, il 16 ottobre del 1893 (che fu anche l’unica che ebbe modo di vedere): “Con questa sinfonia succede qualcosa di strano. Non è che non piaccia, ma suscita una certa perplessità. Per ciò che mi riguarda personalmente ne sono orgoglioso più che di qualsiasi altra mia composizione”. Ecco questa reazione del pubblico da lui accennata fu suscitata secondo me proprio dal finale.
POST SCRITTI:
- Io possiedo due versioni: una di Riccardo Muti con la Philadelphia orchestra ed una di Lorin Maazel con la Cleveland Orchestra. Le reputo entrambe inappuntabili e non del tutto dissimili, anche nell’andamento ritmico. Io personalmente preferisco quella di Maazel, perché conferisce un’enfasi ancora maggiore all’opera, rendendo ancora più nitida la contrapposizione tra pezzi sofferti e accelerazioni vivaci.
- Ormai sono certe le fonti storiche che dicono che l’autore russo non morì di colera, ma si suicidò avvelenandosi. Per essere più precisi bisogna aggiungere che Tchaikovsky fu costretto a suicidarsi, per coprire uno scandalo nel quale era coinvolto lui, ed alcuni vertici dello zarismo. Egli pagò con la vita l’esigenza che la sua figura rimanesse immacolata e per anni il suo suicidio fu tenuto nascosto insieme alle motivazioni, allo scopo di tenere lontano le male lingue e le voci che sparlavano della sua omosessualità.
- Ho scelto una rappresentazione del Caravaggio, invece che le banali copertine usuali dei dischi di musica classica, perché mi sembrava che il clima quasi da requiem della sinfonia fosse sintetizzabile nelle atmosfere di queste raffigurazioni, nella Passione di Cristo morente, caratterizzata da un clima crepuscolare, che si contrappone ai vaghi guizzi di luce nei corpi rappresentati.
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