Ho fatto una cazzata.
Abbastanza imperdonabile per uno che è da più di due decenni che mastica musica, compra musica (molta musica) e che si presuppone abbia superato la fase dell'innocenza (a dirla tutta non mi era capitato nemmeno quando ero uno sbarbatello al primo acquisto).
Cosa ho fatto? Ho comprato un disco per un altro.
Imperdonabile.
Nella mia testa avevo infatti l'ultimo lavoro dei Cosmic Dead, incuriosito proprio da una recensione debaseriana letta qualche giorno fa. Volevo far mio “Psychonauts” (ultimo lavoro in studio del combo scozzese) ed invece ho comprato GLI Psychonauts, confondendo il nome dell'album che volevo acquistare con il nome di una band a me perfettamente sconosciuta. La chiamano senilità, ma il problema è un altro: che cazzo ho comprato?
Scopro a posteriori che gli Psychonauts sono un duo di dj inglesi, Paul Mogg e Pablo Clements, che nel 1998 curano i remix contenuti nella compilation celebrativa dell'etichetta Mo' Wax.
“Songs for Creatures”, loro primo full-lenght ufficiale, esce nel 2003 e porta con sé un trentennio di fumosità squisitamente british: qui l'acid-house dei club londinesi più tendenziosi si confonde con la musica soul, il funky-breaks, il trip-hop, la psichedelia degli anni settanta (evidenti i richiami agli artisti prodotti dalla Mo' Wax: DJ Shadows e Air in primis). Insomma, un bel calderone, si penserebbe, e se infine non ci troviamo innanzi a quello space rock infinito, assoluto, dilatato ed allucinogeno a cui tendevo sbavante, un monicker come Psychonauts non tradisce del tutto le aspettative. In fondo mi è andata bene, il fato non mi è stato del tutto avverso, e “Songs for Creatures” può realmente far viaggiare la mente, seppur non sia in grado di traghettarla troppo lontano. Gli Psychonauts del resto sono dei professionisti preparati, ma forse ragionano troppo: il linguaggio parlato da costoro è un'elettronica analogica che non sa rinunciare al pezzo cantato quanto all'arrangiamento rock, una commistione di elementi che, più che puntare all'effetto stordente, si dirige verso il concepimento di atmosfere crepuscolari e cangianti che si rendono anche sublimi se ascoltate in auto, magari in solitudine, magari di notte.
Non si parte benissimo, però: il pezzo d'apertura “Circles” ingloba per intero un classico del soulman Donny Hathaway cucendogli intorno un'elettronica un po' posticcia e scratchata che poco si sposa con riverberi blues ed un giro di chitarra talmente ascoltato che viene a noia prima ancora che inizi a ripetersi per tutta la durata del brano. Si capisce già da subito che l'intento è quello di essere cool a tutti i costi (e forse i due, dato il background di provenienza, lo sono per davvero), ma le cose vanno decisamente meglio quando irrompono senza soluzione di continuità (grande ripartenza!) i beat spezzati e le tessiture minimali di “Life's Swift Charger”, introspezione scritta a quattro mani con Chancer, vocalist pressoché sconosciuto ma dall'ugola vellutata e carezzevole. Le cose migliorano ulteriormente con “Empty Love”: ritmiche sostenute, linee di basso in evidenza, voci campionate/loopate che fanno molto Chemical Brothers. Da un punto di vista tecnico, del resto non si può recriminare alcunché a Mogg e Clements: la loro perizia dietro alla console, mischiata all'amore sviscerato per la club-dance più accattivante, supplisce spesso all'innegabile mancanza di originalità di un prodotto che non fa gridare certo al miracolo (durante l'ascolto vi verranno in mente almeno altri settanta artisti dalle provenienze più disparate), ma che si lascia ascoltare con gran piacere. Ed alla fine è sempre questo quel che conta.
Con “Hips for Scotland” è nuovamente tempo di relax e cicca sgonfia in bocca; in questo caso i Nostri si tuffano senza snaturarsi nell'universo del cantautorato tout court, confezionando – senza disdegnare chitarra acustica e languori slide - una folk-ballad cosmicheggiante che si fregia della voce ombrosa di un altro guest a me sconosciuto, James Yorkson. Ma come si diceva, “Songs for Creatures” scorre che è una bellezza, e l'alternanza di atmosfere – sempre squisitamente vintage – è senz'altro l'elemento vincente: con “Hot Blood” tornano i ritmi sincopati, i bassi funky e le voci campionate, il tutto accompagnato da fiati sinterizzati ed effetti psichedelici (il brano cambia poi passo nel finale – come spesso capita nel vivace dinamismo che sta alla base del modus operandi dei due virtuosi dj – spegnendosi nelle inquiete note di un rock molto ma molto "alanparsoniano"). L'incalzante “Fear is Real” (featuring Siobhan Fahey) parte invece saccheggiando Moroder per confluire nei territori già battuti della disco music più paesaggistica e martellante . Discorso che prosegue – oramai i motori girano a palla – con “Magnetic” (featuring Ghost) che riscopre le chitarre, mentre “Distance between Dreams” è un interludio bombastico di poco più di un minuto che perpetua la rapina a danno dei Fratelli Chimici.
Negli otto minuti di “Dream Chaser”, i nostri Psichonauti hanno modo di manifestare tutto il loro amore per la musica progressiva, prima meditando su perlustrazioni ambientali in cui sembrano convivere pacificamente il Fripp più “disciplinato” (soundscape direttamente ispirati dai King Crimson di inizio ottanta) e il Gilmour più languido (fantasma che – assieme a quello dei suoi Pink Floyd, nella fase da “The Dark Side of the Moon” ad “Animals” – aleggerà per l'intera durata dell'album), poi abbandonandosi al montare di un tosto quattro quarti, solido palcoscenico per sensazionali volteggi di liquida chitarra solista.
Tempo di saluti finalmente, il congedo spetta ai due brani più smaccatamente piacioni: “World Keeps Turning” è una bella parentesi electro-pop dall'andamento spudoratamente “depechemodiano” (siamo dalle parti di “Violator”) dove uno sbarazzino Jason Rowe svolge il suo compito con onestà sulle sempre ottime partiture elettroniche allestite da Mogg e Clements, mentre in “Take Control” (questa volta dietro al microfono troviamo la sensuale Sam Lynham) vengono esplorate ambientazioni jazz-noir, con coda di percussioni in crescendo, tanto per non farsi mancare niente.
In conclusione: un lavoro piacevole quanto trascurabile (se non amate perdere tempo con prodotti eccessivamente derivativi) e, la mia, una recensione sostanzialmente inutile, ma provvidenziale se vi appellerete al de-archivio in caso vi imbattiate per errore in questo album. Che si fa ascoltare, perlamordiddio, si fa ascoltare...
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