L'horror all'italiana di Pupi Avati ha avuto schiere di ammiratori grazie a due film minori nella sua pur vasta filmografia, "La casa dalle finestre che ridono" (1976) e "Zeder" (1983), che, pur con sfumature diverse, raccontavano storie in fondo simili: la solitudine di chi scopre misteri destinati a rimanere celati, pagandone il fio con dolore e morte. Il tutto rappresentato in contesti inediti per il cinema di allora, come la bella campagna emiliano romagnola, fatta di casolari diruti ed immersi in pieno sole - tenebrosi la notte -, colonie scolastiche abbandonate, spiagge e treni per pendolari sulla linea Rimini - Bologna.
L'insieme inquietava e, merito non indifferente, i brividi correvano lungo la schiena dello spettatore senza troppa cruenza ed attraverso un controllato spargimento di sangue: l'orrore era insomma suggerito, e suggellato da particolari apparentemente secondari, come la zoppia di una bambina divenuta adulta, un cannocchiale puntato su una casa abbandonata, una voce femminile ed un seno scoperto che si svelano quando meno te lo aspetti.
Gli sviluppi ed i successi di Avati, a partire dall'oleografico "Una gita scolastica" (1983) portarono il nostro autore lontano dal genere, salva qualche incursione nei successivi "L'amico d'infanzia" (1994) e "L'arcano incantatore" (1996), che tuttavia non seppero riportare in auge il registra bolognese come quei film ormai dimenticati dai più.
Nel corso degli ultimi anni, vuoi per la ristampa in DVD, vuoi per l'avvento di internet, "La casa..." e "Zeder" hanno assunto una dimensione di culto che ha forse spinto il profilico Avati a ritornare sui propri antichi passi, riscoprendo il cinema di genere e girando questo recente divertissement, "Il nascondiglio", che andiamo ora ad analizzare in dettaglio.
Trama apparentemente lineare, ovvero in linea con la tradizione: donna dal passato oscuro, italiana in terra straniera (l'agricolo Iowa), esce dal manicomio dopo quindici anni di internamento e decide di aprire un ristorante in una vecchia casa abbandonata, di proprietà comunale; giuntavi grazie alle indicazioni di un agente immobiliare un po' cialtrone, comincia a sentire oscure presenze, che si manifestano con gemiti e mormorii di oscura origine, tremori, sparizioni ed apparizioni di oggetti. E' solo l'immaginazione? Un ritorno della follia che si credeva abbandonata? L'impossibilità di rapportarsi con il reale? Per dipanare il mistero, a poco varrà l'aiuto degli abitanti locali, a conoscenza di segreti che è meglio non svelare, a pena di dolore e morte, come già in "La casa..." e "Zeder".
Dirò subito che questo film mi è piaciuto, anche in paragone all'ultimo e deludente "La terza madre" di Argento, invecchiato molto peggio di Avati: sebbene la messa in scena non sorprenda più di tanto, ed abbondino i luoghi comuni del cinema del nostro, oltre che facili concessioni al cinema di genere, "Il nascondiglio" non solo è ben recitato da una Laura Morante in piena forma (che di fatto regge da sola ¾ di film), ma solleva nello spettatore sottili e domestiche angosce, scoperchiando paure mai sopite, come quella di sentire voci, suoni e rumori inattesi. Il tutto con semplicità, ma con quella semplicità che davvero fa paura, proprio perché richiama situazioni quotidiane, destinate ad essere rivissute da ciascuno spettatore nei contesti più disparati, non solo e non certo in una casa stregate alla "Amityville Horror" o alla "Psycho" (cui questo film deve qualcosa). Poche le scene di autentica suspence, e scarse le possibilità di saltare sulla poltrona del cinema come vuole molto thriller horror da grandi platee dei nostri giorni (a partire dall'archetipo "Le verità nascoste" di Zemeckis, cui pure questo film deve qualcosa), ma tensione ben diluita su tutta l'ora e mezza del lavoro, con la solita escalation finale di violenza in cui tutto sembra disgelarsi nel terrore più autentico.
Due note critiche a margine: il film ha un carattere ambiguo, essendo ancor più marcata, rispetto ai precedenti lavori di Avati, la convergenza di razionale ed irrazionale; non è insomma facile capire dove finisca la follia della protagonista ed inizi quella del mondo esterno e reale; in secondo luogo, è curioso notare come nel cinema del cattolico Avati non vi sia, al dunque, possibilità di salvezza, ma solo disperazione, solitudine e vuoto.
Un messaggio del tutto pessimista, che non ravvisiamo, per dire, in Argento, in cui il deus ex machina (anche in senso metaforico/religioso) cava sempre il protagonista dagli impacci, magari sotto forma di Dio(mede) come in "Quattro mosche...", di ascensore come in "Profondo Rosso", di scultura come in "Tenebre" o addirittura di scimmia come in "Phenomena". Mentre in Argento il terrore viene sanato, e la follia confinata nel cinema, in Avati non c'è alcuna riappacificazione, quasi che il terrore si limiti a fotografare la realtà, rappresentandola senza tradirla.
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