Nell'Italia dei primi anni '50, ancora confusa e legata alle molte controversie del ventennio nero e della Seconda Guerra, un giovane impiegato ministariale viene inviato nel Polesine per indagare su un oscuro caso di omicidio che vede coinvolte la Chiesa e una ricca famiglia del posto in seno a questioni strettamente legate ai poteri politici democristiani.
Intrecci enigmatici si dipanano via via che l'impiegato in missione legge gli atti del processo e tutti gli incartamenti - memorie legali, interrogatori, eccetera - mentre un quadro di sinistri complotti si disvela sullo scenario di un tessuto sociale intriso di superstizioni, connivenze e depistaggi.
Il povero giovane ne farà le spese quando toccherà con mano la verità e allo spettatore resterà lo shock del finale unitamente a qualche ombra della storia non completamente fugata.
Tornando per la seconda volta alla narrativa cinematografica gotica e horror, Avati più che ne "L'arcano incantatore" mira a ricreare le atmosfere e le angosce misteriose de "La casa dalle finestre che ridono", ambientando nella provincia agreste del nord-est una vicenda che potrebbe non essere così fantasiosa come sembra.
Certo l'operazione riesce solo in parte, perché le aspettative del pubblico affezionato al primo Avati restano sempre alte e l'evoluzione del cinema horror contemporaneo ha posto nuovi parametri soprattutto per l'audience più giovane. Inoltre, a fronte di una regia e di una fotografia che ben elaborano soggetto e sceneggiatura rendendolo coinvolgente al punto giusto, la recitazione di buona parte degli attori è a dir poco stucchevole.
Dialoghi sussurrati in punta di labbra, frasi spesso incomprensibili, approccio completamente innaturale: una caratteristica che ammorba da tempo il cinema italiano che è spesso - ahimé - derivativo della fiction televisiva. Incomprensibili che un regista di rango come Avati abbia voluto o permesso che almeno la metà del cast recitasse in questo modo.
Nomi blasonati fanno la loro comparsa ne "Il signor diavolo": dalla rediviva Chiara Caselli a Alessandro Haber, da Andrea Roncato a Gianni Cavina. Con un contorno di altri volti quasi sconosciuti o al proprio esordio che potenzialmente rendono la messa in scena realistica nella sua collocazione temporale e geografica. Peccato, per l'appunto, che la tecnica recitativa smorzi fortemente questo potenziale.
Nel complesso, comunque, il film è migliore di quanto la media dei voti che si leggono in rete faccia pensare. Un film che merita la sufficienza e che non si dimentica facilmente. Certo non all'altezza dei primi titoli - ormai cult - del regista bolognese, ma fondato su buone idee e anche su sottintesi ideologici e sociologici non banali.
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