Mah…questa è stata la prima cosa che m’è balenata alla mente quando per la prima volta ho terminato l’ascolto del primo disco di questi italiani Raintime, un giovane gruppo di Pordenone che vede ora tra le proprio fila Claudio Coassin alla voce, Matteo Di Bon e Luca Michael Martina alle chitarre, Michele Colussi al basso, Enrico Fabris dietro le pelli ed infine Andrea Corona alle tastiere.

La formazione nel 2005 decide di compiere il primo passo nel mercato discografico metallico con questo “Tales From Sadness”, un platter che racchiude al suo interno momenti di metal melodico, chiaramente ispirato al metal nordico, al quale si aggiungo ritmiche e vocals death (queste ultime accostate spesso anche all’utilizzo di voci pulite) e melodie chitarristiche progressive.

Ma cosa offre effettivamente questo album? Bhè a dir la verità ben poco, siamo infatti di fronte a un lavoro derivativo che pesca a piene mani un po’ dal power un po’ dalla lezione impartita anni fa da bands quali i Children Of Bodom: ora, prendere spunto da un’altra band potrebbe anche non essere un fatto del tutto negativo, d'altronde le influenze musicali formano gli artisti, ma in questo caso si nota un vero e proprio scopiazzamento dove l’unico elemento di “distinzione” dalla formazione dei bimbi di Bodom sta appunto nell’utilizzo di clean vocals, peraltro neanche troppo gradevoli (se non nella semi-ballad “Chains Of Sadness", migliore canzone dell’ lp).

Il disco scorre via abbastanza rapidamente, la track-list formata da 8 pezzi non presenta spesso spunti che facciano balzare l’ascoltatore, anzi il tutto si mantiene su livelli piuttosto tranquilli e lineari, presentando alcuni cambi di ritmo, qualche linea chitarristica gradevole ma nulla di più.

Si alternano così pezzi come l’apripista “Moot-Lie”, introdotta da un tappeto di tastiera alla quale si lega poi una base a limite tra Labyrinth e Stratovarius: entra poi la voce, che alterna parti clean a screams un po’ poco convincenti. Di poco interesse anche la parte strumentale che non mostra particolari virtuosismi da parte dei nostri, ma solo una spiccata attitudine verso l’easy-listening che li fa sfociare di sovente in un power-pop-metal né originale né troppo gradevole. E questa descrizione potrebbe essere usata per quasi tutti i pezzi: da “Faithland” (in cui si possono trovare rimembranze dei nostrani Secret Sphere per il comparto tastieristico) a “Paradox Defeat”, nella quale l’influenza della band di Alexi Lahio si fa ancora più pesante. Unica traccia che colpisce un poco è, come detto prima, “Chains Of Sadness”, semi-ballad ascoltabilissima, che presenta qualche buono spunto e linee vocali/melodiche meno scontate e per questo più apprezzabili.

Dispiace dire ciò di una band che dimostra però di essere preparata tecnicamente (voce a parte) e di avere una volta ogni tanto qualche spunto gradevole che si perde poi nel mare di banalità presente nel disco.

Rimandati, con non poche riserve.

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