[Contiene anticipazioni]

C'è una frase rivelatrice in una delle ultime sequenze del film; un Mason ormai ventenne chiede al padre: «Che senso ha tutto questo?». Potremmo spostare la domanda dal particolare al generale: che senso ha un film come Boyhood? Vista la sua poetica potremmo rispondere che ha lo stesso senso della vita... e sarebbe? Beh, il padre di Mason non ha una risposta, non sa che senso abbia la vita, ma sa che l'importante è che Mason abbia provato emozioni, che si sia sentito vivo.

Questa idea potrebbe essere applicata all'intero film di Linklater; non si tratta di una pellicola “a tema”, ma un immenso contenitore che tutto fagocita. In questo senso Boyhood vuole rappresentare la vita nel suo scorrere caotico, nel suo proseguire nonostante tutto, nel suo alternare repentinamente gioie e dolori. Il senso della vita e del film non è altro che la vita stessa, il film stesso in quanto miniatura della vita; l'esistenza si auto-motiva, non ha un senso solo né un senso definitivo, si polarizza su una miriade di questioni, di piccole vicende che nella maggior parte dei casi quando finiscono svaniscono nel nulla e non lasciano niente.

Ed è così anche Boyhood; abbiamo una galassia di argomenti, che vengono introdotti senza un preciso punto di vista, ma solo come dati di fatto della fanciullezza e giovinezza di un individuo. Non c'è in realtà una visione profonda dei fatti della vita, quanto piuttosto una rappresentazione senza pregiudizi che punta ad un accumulo esistenziale che si legittimi solo per il suo esistere, appunto. La vita è questa, non ha una trama, non ha una giustificazione: esiste una vita e non possiamo far altro che prenderla per quello che è. Così funziona anche Boyhood, che punta ad avvicinarsi quanto più possibile alla vita.

Tra i temi più piacevoli abbiamo sicuramente il Mason fanciullo che pensa soltanto ai videogiochi, che non sa dire se gli elfi esistano o meno; il Mason fotografo artistico e scostante, il Mason sempre in conflitto con i mariti della madre Olivia.

Nella rappresentazione della vita, sono essenzialmente due i filoni portanti: da una parte abbiamo l'elogio del cambiamento, e questo si sostanzia della caratteristica fondamentale del film, ovvero la scelta di utilizzare gli stessi attori per un periodo di lavorazione di 12 anni. Questo permette ovviamente di dare una qualità assoluta all'evoluzione fisica delle persone, dato che poggia sul vero mutare fisico degli attori.

Secondo macro-tema è il rapporto dei giovani con gli adulti; non a caso sentiamo spesso la domanda «Hai fatto i compiti?», «Hai fatto le faccende?». In questo rapporto vediamo l'evolversi da un atteggiamento puramente normativo e severo all'accettazione del profilo umano di Mason per quello che è. C'è quindi una dicotomia tra la volontà impositiva degli adulti sui bambini e la progressiva presa di coscienza di questi della loro legittima facoltà di fare ciò che desiderano nella vita.

C'è un risvolto negativo in tutto ciò e lo si coglie nel dialogo tra Mason e la madre prima della partenza per il college del ragazzo; Olivia si rende conto che la sua vita, tra un impegno e l'altro, è passata in un attimo, non ha avuto tempo per se stessa, la vita è fuggita. È qui che si nasconde una spina venefica nella visione senza filtri che Linklater ha della vita: essa va accettata per quello che è, non va spiegata, ma questo può comportare una passività nel vivere che porta poi a epifanie nefaste come quella di Olivia.

Altra questione: nel trovare un compagno di stanza al college, Mason si dice stupito della capacità di un computer di abbinare con successo le persone in base agli interessi. A quanto pare, esistono 8 tipologie di persona: inserire questa frase in un film di questo tipo significa gettare una luce inquietante su tutto il narrato dell'opera. Forse Linklater vuole anche dirci che in fin dei conti tutte le vite sono degli schemi, che possono variare ma fino a un certo punto. Anche il padre di Mason, pseudo-artista anticonformista, a lungo andare si reinserisce nel sistema e si fa la sua vita ordinaria; vende la macchina sportiva per una familiare, diventa un padre di famiglia come tantissimi altri.

Boyhood è un'opera estrema: porta il cinema ad un livello di realismo superiore, quindi potenzia il codice espressivo del cinema stesso, ma lo fa con scelte che in fin dei conti mortificano il linguaggio della settima arte. Il cinema è differente dalla vita, vive di schemi e forzature, si polarizza intorno ai fatti interessanti; mentre Boyhood scioglie le forzature in una visione naturale della quotidianità, cerca di estrapolare un significato dalle cose normali; cose che tutti vivono, senza forse chiedersi che significato abbiano. Per questo Boyhood è estremo; nel potenziare una forma artistica ne mostra al contempo i limiti e le formule precostituite.

È un film riuscito perché è insolito nelle sue scelte; va premiato per il coraggio di mostrare la normalità invece della straordinarietà. Non è certamente una scelta che si può riproporre così facilmente; si rischia di trasformare il cinema in una forma più documentaristica che narrativa. La narrazione qui è insita nei volti, nei cambiamenti fisiognomici, nel proporre ciclicamente svariate situazioni topiche e comunissime. Il significato si dà per accumulo giustappositivo e per i lentissimi cambiamenti che emergono nelle azioni e nelle persone. L'obbiettivo è ritrarre una fase della vita di ognuno nelle sue movenze più tipiche, darne una visione profondamente materica, fisica, pragmatica.

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