Salomè ed Elektra: sono quasi sempre citate insieme, così simili ma anche così profondamente diverse; le rispettive protagoniste poi sono come giorno e notte, ma non è questo il momento di parlarne. Più che altro questo preambolo mi serve per dire che, dopo due "macigni" così, molti altri compositori si sarebbero incartati su sè stessi: dopotutto, se Elektra è rimasta la più estrema, la più "modernista" tra le opere che ancora aggi vengono eseguite con regolarità nei grandi teatri, evidentemente, un motivo ci sarà. E da autentico genio qual era, Richard Strauss capì che era il caso di fare un passo indietro: e questo, puramente stilistico, passo indietro, darà vita a una delle pagine operistiche più belle e più rappresentative del '900.

Per comprendere appieno Richard Strauss come operista bisogna tener presente che è stato anche un prolifico compositore di poemi sinfonici e altre forme di musica strumentale (oltre che di lieder, ma questa è un'altra storia ancora); questo aiuta a capire come mai la bellezza delle sue opere non vada sicuramente ricercata nell'immediatezza tipica delle forme chiuse, quello di Strauss è uno stile più sottile, più cerebrale, talvolta più sfuggevole se non ascoltato con la mentalità giusta . Questo vale sia per i due "macigni" precedentemente citati che per il Rosenkavalier, che si distingue non solo musicalmente ma anche per l'ambientazione ben più "terra terra" e la durata molto maggiore (tre ore abbondanti).

Curioso notare come molti personaggi presentino forti analogie con quelli del Falstaff di Verdi (Ochs-Falstaff, Nannetta-Sophie, Faninal-Ford, Valzacchi e Annina-Bardolfo e Pistola), che guardacaso è decisamente la più "straussiana", la più aperta delle opere verdiane. In mano ad un librettista qualsiasi la trama del Rosenkavalier, una commedia degli equivoci di per sè frivola, sarebbe stata un buon soggetto da operetta viennese; ma Hugo Von Hofmannstahl tutto era meno che un librettista qualsiasi, e così ci ritroviamo intelligenti satire e complessi ritratti psicologici perfettamente calati nel contesto di una vicenda squisitamente agrodolce.

Il colore di quest'opera non può che essere il rosa: chiaro e leggermente sbiadito nel primo atto, dominato dalla personalità matura e riflessiva della Marschallin, acceso e brillante nel secondo, l'atto dell'innamoramento a prima vista tra i giovani Octavian e Sophie; nel terzo le due tonalità si mischiano, passando dalla farsa alla melanconicità del gran finale. E per conferire al Rosenkavalier la propria unica connotazione musicale Strauss "prende in prestito" l'arte di quegli altri Strauss, disseminando walzer per tutta l'opera, sotto forma di temi ricorrenti: sfumati per la Marschallin, vivaci e baldanzosi per Ochs. Mettendone insieme i pezzi ne viene fuori questa meraviglia. E quando meno te l'aspetti, nella scena della presentazione della rosa, uno dei momenti clou dell'opera, rispunta fuori Elektra, con quel geniale accordo che rende ancora più magico, più sospeso nel tempo questo momento di amore a prima vista, che, nelle mani dei giusti interpreti, raggiunge vette sublimi. Prendiamo ad esempio la meravigliosa Lucia Popp, uno dei miei tre/quattro soprani preferiti in assoluto, e Brigitte Fassbaender, mezzosoprano così duttile da poter interpretare magistralmente tanto Octavian quanto Clitemnestra in Elektra. Altro episodio "staccato" dal continuum dell'opera è "Di rigori armato il seno", l'aria del tenore italiano: è risaputo che Richard Strauss non amasse particolarmente le voci tenorili e che le forme chiuse non fossero nel suo stile, eppure questo squisito cameo, questa romanza deliziosamente melensa è uno dei momenti più suggestivi del Rosenkavalier, un omaggio del compositore a uno stile e a una tradizione non sue.

Ora parliamo un po' di quel ruolo straordinario e iconico che è la Marschallin: non è l'unica grande eroina operatica che alla fine si piega senza spezzarsi (Turandot), quello che la rende unica è la sua autoconsapevolezza, l'intelligenza disincantata, la nobiltà di spirito che alla fine la porta a compiere quella dolorosa rinuncia. Nonostante sia stata interpretata anche da grandi soprani drammatici come Astrid Varnay e Gwyneth Jones, è una parte squisitamente lirica, che richiede grandissima "finesse" e un timbro maturo ma non eccessivamente matronale; i suoi monologhi nel primo atto, "Da get er hin" e "Die zeit, die ist ein sonderbar" ne tracciano un perfettao ritratto. E a tutta questa raffinatezza fà da contraltare l'ostentato grezzume del barone Ochs, incarnazione di un'aristocrazia feudale, arrogante, cialtrona e innamorata di sè stessa, nella rua ripugnanza è un'altra parte riuscitissima, che richiede un basso buffo di ottime doti recitative nonchè un certo tipo di physique du role, e che ad ogni entrata in scena regala grandi momenti di ilarità.

Ma alla fine Ochs è costretto a sloggiare, lasciando campo libero alla Marschallin e ai due giovani innamorati, Octavian e Sophie. Il loro meraviglioso trio, di una bellezza crepuscolare che sembra quasi anticipare i Vier Letzte Lieder si conclude con l'uscita di scena, carica di malinconia e dignità, del "terzo incomodo". Rimane quindi un duetto d'amore, che suggella definitivamente l'opera riprendendo il tema della presentazione della rosa.

Esistono ben pochi modi migliori questo per occupare tre ore libere.

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