Erano tante le nazioni indiane quando il Mayflower approdò sulla East Coast. Si parla di centinaia, sparse in tutti gli attuali Stati Uniti e Canada, con altrettanti idiomi, usi e costumi diversi ma accomunate da un solo credo universale: una sola madre per tutti, la Terra, e un solo padre, il Grande Spirito. Non volendo accettare persone la cui pelle e le tradizioni erano diverse dalla sua, l'uomo bianco spazzò via tutto in una manciata di anni. Ma, ogni tanto, quello che è andato ritorna e il grave ritardo con il quale tutti noi ci accostiamo a culture ‘altre‘ finisce per produrre risultati inquietanti tanto che, a volte, i perseguitati finiscono per salvare i loro persecutori.

'Ho inseguito per anni un sogno: quello di registrare un album di musica dei nativi d'America. Ma non avevo nessuna intenzione di farlo per togliermi uno sfizio; sentivo l'esigenza di realizzare un qualcosa che fosse di grande impatto emotivo ma, al tempo stesso, rispettoso della cultura indiana‘'. Nel 1994 Robbie Robertson, dopo aver accompagnato Dylan nella sua ‘svolta elettrica‘, aver danzato con i The Band sino all' ‘'ultimo valzer‘', aver composto le più belle soundtrack dei film di Martin Scorsese e riscoperto con Storyville il fascino di New Orleans, ha l'occasione giusta per trasformare il suo sogno in realtà. Quando i produttori di una serie di documentari (con registi e attori indiani) ispirata dal libro The Native Americans si misero in contatto con Robertson per le musiche, egli disse: ci siamo. Finalmente aveva trovato il progetto che aveva atteso per tutta la vita. Mentre i produttori gli illustravano il progetto, la sua testa già volava sulle ali della fantasia: ‘mi tornavano in mente i ricordi della mia fanciullezza, i suoni, gli odori e i sapori di quel tempo'.

Nato a Toronto il 5 luglio del 1944, Robbie è infatti di origini Moicane e così ricorda la sua infanzia a contatto con la cultura pellerossa: ogni estate si recava nella riserva delle Six Nations dove c'erano i suoi parenti. Lì viveva come un sogno perché in confronto, la vita di città mi appariva sterile, priva di attrattive. I suoi nonni, i suoi zii, i suoi cugini, avevano un rapporto straordinario con la natura e lui invidiava moltissimo il loro stile di vita. Furono questi fattori ad iniziarlo alla musica che, per altro, ha sempre avuto un ruolo determinante nella cultura indiana. Contemporaneamente, in quegli anni, il giovane Robertson veniva travolto dall'onda emergente del rock'n' roll: per lui fu una combinazione esplosiva. Sembrava un quadro surreale. E quel fenomeno fu così potente che sfuggì alla sua comprensione: si sentì catturato da un tornado e trasportato in giro per il mondo.

Proprio dalla intelligente e raffinata commistione delle due influenze principali dell'adolescenza di Robbie (il rock e la cultura indiana) si trovano le premesse artistiche di Music For The Native Americans. Infatti, dal punto di vista musicale, l'album è una meravigliosa sintesi fra tradizione e innovazione, rigore etnologico e fruibilità di ascolto cosicché la sempre difficile fusione tra antico e moderno viene qui risolta in modo esemplare. Il tutto grazie alla sensibilità artistica di Robbie Robertson ma anche al suo coinvolgimento totale in questo progetto: si è impegnato tantissimo per trasformare le sue emozioni e i suoi ricordi in un linguaggio musicale che potesse essere capito da tutti. Da questo punto di vista, il brano 'Ghost Dance‘' diventa esemplare. La melodia, scritta nel classico stile del songwriter canadese, si trasforma in una suadente ballad etnorock le cui parole racchiudono la fine fisica di un popolo e la sua rinascita spirituale. Il brano si riferisce alla messa al bando da parte del governo americano della Ghost Dance, la Danza Degli Spiriti, tanto che la sua perpetuazione da parte delle tribù indiane fu la scusa che scatenò la furia del 7° Cavalleggeri, il 29 dicembre del 1890, nel purtroppo celebre massacro di Wounded Kee. Nello stesso filone troviamo tre canzoni: ‘'It Is A Good Day To Die‘', ‘'Golden Feather‘' e ‘'Skinwalker‘'.

La prima è ispirata dal motto dei Capi Indiani di fronte alla Cavalleria Americana, ma anche da un principio della filosofia dei nativi: ‘ sono così grato per ogni singolo giorno di vita che ogni giorno può essere un buon giorno per morire ‘. La seconda, ‘'Golden Feather‘' altamente suggestiva e dalla melodia bellissima, è uno dei momenti più delicati dell'intero progetto e prende spunto da una credenza indiana secondo la quale trovare una piuma dorata o una pietra a forma di cuore sia sinonimo di buona sorte. La terza ‘' Skinwalker ‘' letteralmente ‘ colui che cammina nella pelle ‘ si riferisce ad una figura leggendaria dalla vecchia tradizione Navajo, lo skinwaker appunto, uno spirito che ha il potere di entrare nei corpi altrui e di stabilirvisi controllando gli istinti primari. Quattro sono invece i brani dal più spiccato sapore ‘etno‘: la strepitosa e ipnotica ‘' Mack Jchi ‘' cantata dal coro femminile Ulali e registrata in parte nel Nuovo Messico e in parte a New York in una sorta di riunione intertribale a distanza; la fascinosissima ‘'Akua Tuta‘', la suadente ‘'Cherokee Morning Song‘', interpretata da Rita Coolidge, sua sorella Priscilla e sua nipote Laura Satterfield, una tipica canzone tradizionale Cheroke che veniva cantata in gioventù nella famiglia Coolidge; la tribale ‘'Ancestor Song‘' per sole voci e percussioni nel più classico stile dei native americans. Quindi brani più di atmosfera come le strumentali ‘'Coyote Dance‘', in apertura dell'album, o ‘'The Vanishing Breed ‘', quest'ultima ispirata da una fotografia d'inizio secolo di Edward S.Curtis. Si tratta di un foto intitolata ‘The Vanishing Race', cioè la razza che sta scomparendo di indiani ritratti in mezzo a quella che sembra una nuvola di fumo o nebbia che guardano indietro come se dovessero scomparire per sempre. Infine due pezzi come ‘' Twisted Hair ‘' altamente simbolici nel testo e nelle atmosfere acustiche dove la suggestione sonora è accentuata dalla recitazione delle liriche ispirate in ‘'Words Of Fire", ‘'Deeds Of Blood ‘', dalle parole di saggezza di Capo Giuseppe, leader carismatico dei Nasi Forati.

La sua preoccupazione principale, ricorda Robbie Robertson, è stata quella di avere il consenso della nazione indiana. Prima di registrare l'album è andato a parlare con alcuni vecchi capi che rispetta moltissimo. Loro gli hanno detto: ‘Robbie, se vuoi la nostra benedizione usa la tua forza spirituale e non far finta di vivere nell'800. La tua musica deve parlare il linguaggio dei tempi. Sii forte e onesto'. Questo consiglio lo ha fortemente tranquillizzato perché rappresentava esattamente ciò che voleva: quello di fare un album che poteva sfruttare il suo background artistico e le sue radici culturali. Ha voluto fare il disco per loro, per quei vecchi e saggi capi indiani che gli avevano dato la loro benedizione. Così una volta terminato il lavoro si è recato da quello che riteneva essere il personaggio più rappresentativo. Ha inserito l'album nel lettore. Dopo i primi tre brani non ha notato alcuna reazione: assolutamente immobile con lo sguardo imperturbabile. Robbie ha cominciato a chiedersi dove aveva sbagliato, che cosa aveva dimenticato.... Ed era così imbarazzato che non osava guardare il capo indiano negli occhi. Verso tre quarti del disco ha sollevato il suo sguardo e ha visto che al capo indiano gli stavano scendendo le lacrime.... Quella è stata la più grande gratificazione che Robbie abbia mai ricevuto nel corso della sua carriera.

Glorificato dalla critica, 'Music For The Native Americans' ha rappresentato per Robbie Robertson un grande momento della sua esistenza. E proprio il desiderio di proporre quel progetto al pubblico ha convinto Robbie ad esibirsi dal vivo quasi vent'anni dopo la sua ultima apparizione on stage e a dar seguito a quella operazione con il successivo album del 1998. Un disco che rappresenta al meglio ciò che gli indiani hanno vissuto, le persecuzioni che hanno subito. Stupendo in ogni sua sfaccettatura.

 

 

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